Garibaldi pioniere dell'Ecosocialismo

Garibaldi pioniere dell'Ecosocialismo
Garibaldi, pioniere dell'Ecosocialismo (clickare sull'immagine)

sabato 28 luglio 2012

LA KILLING REVIEW, NEMESI DEL NOSTRO MEZZOGIORNO


 
di Riccardo Achilli 
 
 
La metodologia con cui il Governo ha ribaltato su Regioni ed autonomie locali la quota di spending review a loro assegnata (che dovrà ammontare a 7,1 miliardi, di cui 700 milioni a carico delle Regioni) dimostra la mediocrità anche professionale, l'assenza di un'idea di sviluppo, di una visione di un possibile futuro dopo l'austerità, da parte di questi tecnici. Anche in forma lesiva dell'autonomia di Regioni ed enti locali, poiché a norma dell'art. 117 della Costituzione sulla quale lorsignori hanno giurato, l'armonizzazione dei bilanci pubblici ed il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario è materia di legislazione concorrente, nella quale lo Stato può soltanto determinare i principi fondamentali, si stabilisce da Roma la quota di risparmi da realizzare a carico delle autonomie locali e si suggerisce anche la voce di bilancio su cui agire prioritariamente, ovvero i consumi intermedi (essenzialmente le spese delle PPAA per acquisti di beni e servizi) determinando, in un documento denso di veri e propri strafalcioni di aritmetica elementare che circola in Parlamento, il metodo con cui determinare il risparmio a carico di ogni amministrazione: il differenziale di spesa fra l'amministrazione interessata ed un amministrazione che si colloca in posizione mediana in termini di rapporto fra spesa per consumi intermedi per abitante, oppure per dipendente. In altri termini, se entro il brevissimo termine del 30 settembre le Regioni non si metteranno d'accordo sul metodo per ripartire fra loro il taglio predeterminato a monte dal Governo nel decreto sulla spending review, interverrà il governo stesso, con poteri sostitutivi, ed un metodo di determinazione del risparmio da applicare ad ogni singola Amministrazione già pronto per essere utilizzato, senza alcuna concertazione.
Al di là degli aspetti irrispettosi dell'autonomia costituzionalmente garantita agli enti regionali, l'unico commento ragionevole che viene da fare a questo metodo ragionieristico da taglio lineare è "Capodicazzo"! C'era bisogno di affidarsi a Bondi per mettere in piedi tre conticini assolutamente decontestualizzati rispetto alle realtà socioeconomica dei territori sui quali tali tagli vengono spalmati con una regolina meramente aritmetica? Ma bastava un ragionier Fracchia qualsiasi! Per usare una metafora, il metodo-Bondi è come una famiglia che non arriva a fine mese e per risparmiare butta un figlio in mezzo alla strada. Certo che in questo modo risparmierà, ma abbandonando il figlio comprometterà il futuro. Al di là, ovviamente, dell'indegnità etica di un simile comportamento. E non ci vuole un genio per fare una cosa simile. Tutt'al piu' basta un criminale.
La realtà delle regioni meridionali che concorreranno a tali tagli si condensa in una statistica densa di significato: mentre a livello nazionale aggregato il rapporto fra investimenti pubblici ed investimenti fissi lordi totali è del 18% circa, nelle regioni meridionali tale percentuale oscilla fra il 35 ed il 45%. Ciò significa banalmente che le fragili economie delle regioni del Sud dipendono in modo fondamentale da un circuito di spesa pubblica. Sono economie assistite, in cui i sistemi produttivi, in buon misura, ed ovviamente al netto di eccezioni virtuose, sopravvivono all'interno di mercati piu' o meno protetti, basati sulla domanda pubblica. Certamente questi circuiti di spesa non sono scevri da assistenzialismo, spreco e clientelismo parassitario, ma signori miei, questa condizione è caratteristica del ritardo di sviluppo, un ritardo di sviluppo che 150 anni di unità del Paese non hanno sanato, ma anzi aggravato, nel Mezzogiorno, usato come serbatoio di manodopera per lo sviluppo industriale del Nord, e come bidone di voti cui hanno largamente attinto le classi politiche nazionali.
Oggi la realtà è che, tagliando indiscriminatamente tale circuito di spesa, senza predisporre un percorso di utilizzo alternativo delle risorse risparmiate, si finisce di uccidere ogni speranza di tenuta sociale dell'area piu' fragile del Paese, distruggendo i circuiti locali di spesa, che ne erano l'ultima difesa, seppur una difesa patologica.
Occorrerebbe spiegare a tali economisti da operetta tragicomica che il termine "spending review" non è sinonimo di "tagli di spesa", ma di "messa in efficienza e riqualificazione della spesa". Nei Paesi angolosassoni che hanno introdotto da anni la spending review, questa procedura serve per riorientare i risparmi ottenuti da spesa improduttiva verso utilizzi produttivi, e gli esercizi di spending review sono sempre accompagnati e diretti da una attenta valutazione di impatto di utilizzi alternativi della spesa pubblica. Non sono meri risparmi di risorse da bruciare sull'altare della troika, cioè da portare a riduzione del debito pubblico consolidato, come pensa di fare Monti con i risparmi ottenuti sulle Regioni e sugli enti locali, che serviranno soltanto per coprire ulteriori tagli ai residui, magrissimi trasferimenti statali di parte corrente alle autonomie locali (di fatto questa è l'unica parte del federalismo fiscale che è stata attuata: l'azzeramento rapido dei trasferimenti statali alle autonomie. L'altra parte, ovvero il potenziamento della fiscalità locale necessario per coprire i trasferimenti statali scomparsi, non è stata, e non sarà mai, attuata). Per restare nella metafora familiare, una spending review seria, da economisti e non da contabili, riviene a rinunciare all'opzione di abbandonare un figlio sul ciglio della strada, e piuttosto ad insegnargli una etica del risparmio: vestirlo con vestiti comrpati alal bancarella, anziché con costosi abiti firmati; insegnargli che per divertirsi non serve avere l'ultimo robot-transformer alla moda, ma che anche con un giocattolo meno costoso ci si può divertire lo stesso. Ed usare i risparmi così ottenuti per mandarlo all'università, quando sarà cresciuto.
Fuori di metafora, una vera spending review per le amministrazioni meridionali dovrebbe consistere esattamente in questo: utilizzare i risparmi da spesa corrente o comunque improduttiva per finanziare circuiti di spesa pubblica locale virtuosi, basati sulla concentrazione degli investimenti in poche e selezionate aree produttive dotate dei fattori di sviluppo ottimali per catalizzare l'investimento imprenditoriale, al fine di difondere lo sviluppo anche al di fuori di tali aree ed in modo diffusivo, con i meccanismi di "breakthrough" degli equilibri statici del sottosviluppo illustrati dalla teoria della causazione circolare cumulativa di Gunnar Myrdal. Cioè distruggere circuiti di spesa locali che non fanno sviluppo per sostituirli con circuiti di spesa in grado di attivare poli di crescita alla Perroux e industrie motrici.
Invece, si distruggerà il pregresso senza creare niente di migliore o di alternativo. Il debito pubblico scenderà temporaneamente di qualche millesimo di punto, immediatamente recuperato dagli effetti della recessione sui conti dello Stato, e l'opera di distruzione del Mezzogiorno sarà completata. E sindaci ed i Presidenti di Regioni e Province del Mezzogiorno, anziché organizzare rivolte popolari, si limitano a sfilare per le strade di Roma con la fascia tricolore, facendo facce incazzate ma in realtà mendicando qualche centinaia di miagliaia di euro di "sconto" rispetto alla cifra dei risparmi imposti dal Governo. E guai se rompono troppo le scatole al manovratore, come ha dovuto fare Errani, nel suo ruolo di Presidente della conferenza Stato Regioni. Ecco che, proprio in coincidenza con le sue vibrate critiche al Governo dei professori, spunta fuori, provvidenziale, una inchiesta della magistratura a suo carico. Chi ha orecchie per capire, le abbassi e si adegui. Questa è la realtà storica, umiliante, che stiamo vivendo. E' un Paese che si affida ai suoi carnefici. "Triste, Solitario y Final", direbbe il grande Osvaldo Soriano.

martedì 24 luglio 2012

A Cuba morto Oswaldo Payà: ennesimo "incidente stradale"

di Antonio Moscato
Non so nulla, ovviamente, dell’incidente stradale in cui ha perso la vita il più autorevole dei dissidenti cubani, Oswaldo Payá. La figlia è convinta che l’incidente sia stato organizzato, anche perché poche settimane fa era stato preceduto da un altro tentativo analogo. In ogni caso non tarderemo a sapere qualcosa di più preciso, dato che a parte i testimoni esterni (contrastanti) citati da familiari, amici e autorità, sulla macchina su cui viaggiava Payá c’erano due stranieri, che sono sopravvissuti, e da cui si potrà sapere se c’è stato l’urto con un camion, o un malore o altro. Basta aspettare.
Possiamo però parlare già ora di due argomenti che non hanno bisogno di conferme o smentite. Il ruolo di Oswaldo Payá a Cuba, e le ragioni per cui si fanno tante illazioni su un incidente stradale apparentemente banale.
Oswaldo Payá è stato molto fastidioso per le autorità cubane: era stato l’animatore del gruppo che si raccolse intorno al progetto Varela, che applicando una norma prevista dalla costituzione cubana raccolse nel 1998 più di 11.000 firme su una proposta di referendum su vari aspetti, compresa una modifica della legge elettorale, spacciata per la più democratica del mondo, ma che era ricalcata su quelle del blocco sovietico. Una proposta che si collocava all’interno del quadro istituzionale cubano, e che fu rifiutata e condannata dalla trogloditica “opposizione” di Miami, ma che ebbe come unica risposta dal regime un penoso referendum, che decretò il “carattere irrevocabilmente socialista” dello Stato cubano. Un referendum che raccolse come al solito (e come era accaduto in URSS o in Romania per analoghe iniziative di poco precedenti il crollo) il 99,90 % dei voti. Tanti milioni contro 11.000 firme, ripetevano anche da noi i fessi, che ignoravano che coraggio ci voleva per firmare una richiesta bollata dal regime come “vendipatria”, e come era difficile invece sfuggire all’obbligo di partecipazione a un voto sotto l’occhiuto controllo di quei CDR che già nel 1962 Guevara aveva definito “molto antipatici al popolo”…
Molte decine di coloro che avevano collaborato all’elaborazione del progetto Varela e alla raccolta delle firme furono arrestati nel 2003, l’anno dopo il referendum. Ne ho parlato ampiamente nel secondo aggiornamento della Breve storia di Cuba oggi sul sito (leggi qui), in cui accennavo anche al fatto che il maggior responsabile del progetto, Payá, era stato salvato dall’arresto grazie al suo rapporto con la gerarchia cattolica dell’isola e con lo stesso Vaticano. Ma non si era salvato dalle stupide molestie che i responsabili della “sicurezza” riservano agli oppositori che per una ragione o per l’altra non possono o non ritengono opportuno arrestare: gli Actos de repudio, cioè “proteste spontanee” di squadristi specializzati nel lancio di pietre o immondizie contro la casa del dissidente, che disturbano anche con grida e rumori vari. Sulla casa lasciano scritte infamanti, come “spia della CIA”… [Una buona informazione su Oswaldo Payá e sulle ripercussioni dell’incidente oggi c’è su “Avvenire”, ovviamente interessato a seguire la scomparsa del principale referente della Chiesa Cattolica a Cuba.]
Quanto alle ragioni per cui si fanno tante illazioni su un incidente stradale apparentemente banale, vorrei ricordare qualche altro precedente: prima di tutto quello relativamente recente della morte di Celia Hart, di cui ho parlato ampiamente in Ricordando Celia Hart e in altri scritti facilmente reperibili sul sito. Come si può vedere, io propendevo per la tesi dell’incidente, magari reso più facile dallo stato in cui Celia si trovava, tesissima, più nervosa del solito, che era stato notato da un compagno italiano di Italia Cuba che l’aveva incontrata pochi giorni prima della morte. Forse questo spiega meglio l’urto violento contro un albero in una strada senza traffico, ben più della dietrologia di chi ha immaginato un complotto per eliminare la “trotskera” dell’Avana, come lei si era autodefinita ironicamente.
Ma resta il fatto che molti di quelli che l’hanno conosciuta durante il suo lungo giro di conferenze in Italia del 2006 hanno continuato a chiedermi se era stato proprio un incidente casuale.
Analogamente era accaduto per la analoga morte di Manuel Piñeiro —Barbarroja, per anni capo dei servizi segreti cubani, che si schiantò in una notte del 2001, un’Avana ancora quasi senza traffico, contro un albero.
Ma vale la pena di ricordare il caso più celebre di un incidente a cui la voce popolare ha attribuito le caratteristiche di un sabotaggio deliberato: quello in cui perse la vita già nel 1959 il dirigente più amato della rivoluzione, più amato dello stesso Guevara e di Fidel Castro: Camilo Cienfuegos.

Ne avevo parlato spiegando perché quell’interpretazione non mi aveva mai convinto:

E una volta che [il soggetto è Oscar, un ex ufficiale della Seguridad diventato gestore di una Paladar e in un certo senso “dissidente”] sentì un avventore cubano fare una battuta che metteva in dubbio la versione ufficiale della morte di Cienfuegos, insinuando che ci potesse essere lo zampino di Castro, esplose infuriato, smentendolo, e cominciando una lunga ricostruzione dell’ultimo giorno e dell’ultima notte di Camilo Cienfuegos: lui era di guardia proprio all’aeroporto da cui Camilo partì, nonostante il servizio meteorologico avesse annunciato l’avvicinarsi di un ciclone. Cienfuegos era un cabezón come il Che, e aveva voluto partire lo stesso, illudendosi di aggirare il ciclone in cui invece il suo piccolo aereo scomparve per sempre. Non era possibile poi che qualcuno avesse fatto un sabotaggio all’aereo, perché il pilota, legatissimo a Camilo e scomparso con lui, dormiva a bordo per vigilare. Lo abbiamo cercato per giorni e giorni, precisava, spiando l’oceano, esplorando tutti i cayos, gli isolotti sabbiosi su una base corallina che orlano le coste di Cuba. Il cubano non si convinse: sono in molti a ripetere questa storia, che proietta nel passato la diffidenza per Fidel nata negli anni della maggiore influenza sovietica e rimasta anche dopo, per le tante reticenze su quel periodo, sulle circostanze della morte di Guevara, ecc.
[ Ne ero già] convinto da prima, per una elementare constatazione: Cienfuegos era andato a Camaguey per arrestare Huberto Matos, un comandante che aveva avuto un buon ruolo nella prima fase della rivoluzione, ma era anche un proprietario terriero, e aveva rifiutato la riforma agraria, e aveva per questo scritto una lettera di dimissioni a Fidel. Camilo era andato ad arrestarlo per timore che potesse organizzare una rivolta, in una provincia dove erano forti le resistenze alla riforma agraria. Ma l’elemento decisivo per respingere quelle insinuazioni è che in quel 1959 Fidel, il Che e Camilo si trovavano in totale accordo proprio sulla necessità di accelerare e portare a termine la riforma agraria.*

[Colgo l’occasione per segnalare l’uscita di una bella biografia di Camilo Cienfuegos, pubblicata e curata da Roberto Massari*, e scritta dal grande storico della rivoluzione cubana e suo dirigente di rilievo nei primi anni, Carlos Franqui, poi bollato dal regime come “controrivoluzionario” e quindi messo all’indice dagli imbecilli e dai bigotti.]
A chi si scandalizza per il riaffiorare periodico di queste interpretazioni malevole di incidenti casuali, ricordo che hanno una spiegazione: la scarsa fiducia dei cubani nel sistema informativo ufficiale che, come ricordava Leonardo Padura in La Cuba di Padura Fuentes, ad esempio impiega giorni e giorni prima di ammettere perfino l’esistenza del colera nell’isola, e che spesso fornisce inizialmente spiegazioni non convincenti di molte vicende (a partire dalla misteriosa “sparizione” del famoso cavo di connessione internet con il Venezuela). Come accadeva con la “Cremlinologia”, la “Cubanologia” ostile al regime prospera proprio sulla insufficienza, sulle lacune e sui ritardi delle notizie “ufficiali”. 
(a.m. 24/7/12)

*Ad onor del vero il bollettino metereologico del giorno della morte di Cienfuegos segna un sole splendente e nessun fenomeno ciclonico (n.d.r.) 
* Nel libro su Cienfuegos tradotto da Massari, manca completamente un capitolo scritto da Franqui ma dall'editore non ritenuto attendibile, con un criterio che a nostro avviso resta assai discutibile, esso è intitolato "Abrazo fraternal" e riguarda i fratelli Castro (n.d.r.)

da: http://antoniomoscato.altervista.org/index.php?option=com_content&view=article&id=946:incidenti-stradali-a-cuba&catid=6:il-dibattito-sul-qsocialismo-realeq&Itemid=15

domenica 22 luglio 2012

Il nuovo medio oriente, gli USA, la Siria, le rivolte arabe

di Manfredi Mangano
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Il compagno Giuseppe Angiuli ha scritto una interessante nota sulla strategia americana rispetto alla Siria e al progetto di Greater Middle East. Condivido diversi spunti, ma ci sono dei tasselli della ricostruzione che a mio avviso sono un pò forzati e risentono di una interpretazione a mio avviso eccessivamente determinista dell'analisi geopolitica.

Partiamo dall'idea delle Rivolte Arabe come un mero fenomeno di destabilizzazione:  "Mentre il progettato cambio di potere in Tunisia ed Egitto è stato (quasi) repentino e, tutto sommato, di facile realizzazione, per destabilizzare la Giamairiha libica di Gheddafi è stato necessario ricorrere ad intensi bombardamenti NATO".

In questa frase, si condensa a mio avviso un errore comune, nel campo "antimperialista", che tende a riabilitare in maniera postuma i nemici di turno degli Stati Uniti. E' successo con Saddam Hussein, grande protegè degli USA negli anni '80, massacratore di curdi, iraniani e comunisti, cliente d'oro dei mercanti d'armi occidentali, che iniziò la guerra in Kuwait non certo per spirito umanitario contro l'oppressione feudale, ma banalmente perchè pensava che  il prezzo di 10 anni di guerra contro l'Iran potesse ben essere un petroemirato da aggiungere alla sua satrapia.
E' almeno compensibile succeda con Gheddafi, che a fianco di rapporti poco chiari e di contiguità inquietanti col terrorismo e con alcuni despoti assortiti, almeno qualcosa per la causa dell'antimperialismo e del socialismo l'ha fatto, in Patria come all'estero.

E meno comprensibile che succeda, invece, con i regimi dell'RCD e del PDN, di Ben Alì e di Mubarak, inTunisia e Egitto.

Chiariamoci. Io sono molto lontano dalla retorica dell'interventismo dei diritti umani: la vedo un pò come Gerschenkron, con la sua dinamica dello sviluppo economico globale che porta a prediligere regimi autoritari nelle fasi in cui si rincorre lo sviluppo per concentrare le energie economiche. Al di là del tasso di adesione elettorale di un regime, che è comunque un tassello importante che non dovremmo dimenticare, cerco sempre di valutare le concrete dimensioni di un paese, le sue reali possibilità di esprimere una leadership in un senso o nell'altro, e in generale l'utilità o meno per il suo popolo del governo che si ritrova.

in questo contesto, RCD e PND non sono state sicuramente esperienza da buttare completamente via, per Tunisi e il Cairo, come non lo sarà Gheddafi per la Libia. Ma di sicuro, per tutti e tre i regimi, siamo di fronte a una ossificazione del potere. Tunisia e Egitto non potevano certo essere, oggi, inseriti nella categoria dei regimi progressisti: pur svolgendo il meritorio ruolo di garantire la laicità e la stabilità dello Stato di fronte alla minaccia del fondamentalismo islamico, entrambi svolgevano un ruolo di equilibrio e di copertura di interessi politici, economici e militari occidentali, garantendo l'ortodossia delle politiche economiche al Washington Consensus e l'apertura agli investitori in cambio della tolleranza americana per la sopravvivenza di nicchie di potere escluse dal mercato, ma legittimate a una spoliazione politica e clientelare delle risorse statali (l'esercito in Egitto, la famiglia presidenziale in Tunisia): a Mubarak e Ben Alì era poi concessa una nicchia di autonomia anche in politica estera, con un sostegno al comunque oramai molto moderato OLP che ne doveva garantire la credibilità verso le masse arabe nazionali e internazionali.

Di conseguenza, non era interesse americano o europeo assistere alla loro dipartita. Il supporto di fondazioni americane a gruppi pro-democrazia rientra nella medesima strategia per cui gli USA interloquivano a un tempo con la DC, Craxi, Edgardo Sogno, Marco Pannella e Giorgio Napolitano: è bene avere sempre un cavallo di riserva su cui puntare.

In quest'ottica, la comunità internazionale si è tovata di sicuro spaesata quando sono scoppiate rivolte che, ricordiamolo, non sono nate come "proteste arancioni" all'ucraina (e anche lì, comunque, bisogna distinguere tra Ucraina e altri paesi, come quelli dell'Asia Centrale, e anche evitare di semplificare troppo il problema ucraino), ma come classiche rivolte sociali a cui la presenza del Web e di un gran numero di giovani ha consentito nuove forme di organizzazione e coordinamento delle classiche forme di protesta (che sono sempre scioperi, picchetti, boicottaggi e assalti, ma ora organizzati in maniera più sicura e impreivedibile tramite i nuovi media).

Ricordiamoci che inizialmente l'ambasciata USA al Cairo non era affatto sicura di preferire i dimostranti all'esercito: Obama è intervenuto e ha fatto quello che suoi predecessori intelligenti hanno fatto con i regimi più impresentabili del blocco occidentale, dai colonnelli greci a Pinochet. Ossia, ha capito che il cavallo Mubarak oramai era bollito, e ne ha scelto uno nuovo. Questo ha permesso agli USA di riguadagnare un minimo di capitale politico nel mondo musulmano, anche sfruttando la popolarità personale di Obama.

In Libia, la dinamica si è rivelata diversa: a Bengasi c'è stata sicuramente una rivolta, ispirata dal successo delle vicine Tunisia e Egitto, contro il regime di Gheddafi. Non c'è bisogno di fare troppi sforzi di fantasia per immaginare che nella citta cirenaica, i tre principali attori politici (giovane borghesia nascente di sentimenti liberali, Fratelli Musulmani, indipendentisti) detestassero il Colonnello, il cui regime era sicuramente ammaccato ma non al livello terminale di consenso che caratterizzava invece i vicini. E' su questo corpo di rivoltosi, genuino anche se sicuamente moderato, filooccidentale e "borghese", che si è andata a saldare una dinamica "eterodiretta", ben chiarita da LIMES, in cui a Sarkozy, reduce dallo smacco tunisino dopo che una sua ministra si era offerta di inviare corpi speciali a difesa del regime, serviva un successo forte per rilanciare l'immagine e l'influenza francese nell'africa subsahariana e nel Mediterraneo. Ricordiamoci infatti che, oltre al progressivo indebolirsi della Francafrique grazie alla concorrenza cinese e al rinnovato interesse americano per l'Africa, il mandato di Sarkozy aveva visto il totale fallimento anche della politica mediterranea francese, dopo il veto della Merkel a formalizzare l'Unione del Mediterraneo. Sarkozy a quel punto ha agito sui legami economici e a cascata tribali di una serie di tecnocrati libici vicini all'Occidente per organizzare un vero e proprio tentativo di golpe politico-militare, da inserire nell'onda delle proteste: all'inizio si pensava che ne fosse parte Saif al Islam, ma la sua comparsa a fianco del padre ha fatto salire alla ribalta ... proprio gli assistenti di Saif come Jibril e Jallud, che ne avevano accompagnato lo sforzo riformatore e filooccidentale in questi anni !

D'intesa con la Gran Bretagna, che ha rapidamente anteposto i suoi interessi petroliferi ai buoni rapporti coltivati da Blair e dal Labour con Gheddafi durante la War on Terror, Sarkozy ha dunque sposato la causa interventista di Bernard Henry Levi, e su questa china ha trascinato anche attori come Obama, che durante tutta la campagna NATO ha cercato di tenersi defilato e, secondo Debka, stava patrocinando dei colloqui sulla transizione politica con Saif Al Islam a Biserta, in Tunisia, auspici la Russia e l'ex primo ministro francese De Villepin. Sarkozy ha trovato nel Qatar un alleato nuovo: più dinamico e meno sputtanato dell'Arabia Saudita, il monarca quatariota ha grossa influenza in Francia grazie allo shopping geopolitico del suo fondo sovrano, che a Parigi ha comprato di tutto, dalle squadre di calcio a partecipazioni nelle aziende strategiche. Sostenitoe dell'ala più modernista del wahabismo / salafismo, che è cosa diversa dai Fratelli Musulmani, l'emiro del Qatar ha cercato in questi mesi di accreditarsi come nuovo punto di riferimento del mondo arabo, è ed è stata la sua collaborazione anche militare oltre che finanziaria e di immagine a decidere la campagna di Tripoli.

In Siria, la dinamica è simile: il malcontento contro il regime di Assad è vivo. Lo è per motivi religiosi e etnici (preminenza degli alawiti, dei drusi e dei cristiani), economici (progressiva dimensione "di casta" degli alawiti nella burocrazia, appoggio della borghesia sunnita, processi di apertura economica all'occidente), politici (sostanziale impasse delle riforme politiche, politica laica del governo che scontenta i settori tradizionalisti della società, ruolo importante della corruzione e del familismo). Assad ha finora ottenuto un certo supporto, aperto o tacito, da una parte importante della popolazione: ma il fatto che i ribelli siano sponsorizzati dall'esterno, armati da regimi impresentabili più di quello siriano, autori della loro dose di atrocità, non azzera le responsabilità del regime nel precipitare la situazione, rispondendo violentemente alle prime proteste e continuando a commettere brutalità che sono connaturate alla guerra e inferiori rispetto ai conteggi della propaganda embedded, ma innegabili, nonostante le eroiche contorsioni di Marinella Correggia in alcuni suoi pezzi dove prevale lo schieramento ideologico alla correttezza dei fatti che ha cercato di seguire di fronte alla propaganda occidentale (caso chiaro il diniego ostinato sui video di torture effettuate da soldati siriani).

In quest'analisi dei fatti, la ricostruzione molto dettagliata della linea politica dei Neocons e del suo progressivo abbandono fatta da Giuseppe è certamente pregevole e reale, ma si inceppa a mio avviso di fronte a questo passo : "La nuova linea “realista” – elaborata dai due prefati strateghi - comporta la necessità per gli U.S.A. di abbandonare lo scenario della fantomatica “guerra al terrorismo islamico” ed anzi, di fare leva proprio sull’islam  radicale quale preziosa risorsa politica e quale fraterno  alleato da impiegare su larga scala come fattore di destabilizzazione in operazioni di “guerra sporca” o “coperta” (molto simile alla guerra a bassa intensità attuata dai contras  in Nicaragua)."

Masticando (non molto in verità, maun poco sì) la letteratura realista in oggetto, si tratta in realtà di un più pragmatico abbandono dei toni da crociata in favore di un understanding con l'Islam, con l'Europa e con la stessa Russia (quest'ultimo il meno praticato e col minor successo rispetto ai primi due), che si è fatta strada in una parte importante dell'establishment americano. Il sostegno a un "nuovo islam radicale" non è un fattore di destabilizzazione americano, a mio avviso, se non in maniera tangenziale (il caso di Belhaj  dei suoi ex quaedisti a me fa molto pensare a un accordo del tipo "tu smetti di lavorare con Bin Laden e combatti Gheddafi coi tuoi, avrai un pezzo della torta), ma è una precisa strategia di penetrazione politica che porta la firma di due attori: Arabia Saudita e Quatar. I fratelli musulmani si sono sicuramente imborghesiti, rispetto ai loro inizi "para-rivoluzionari", ma non sono il "cavallo vincente degli americani", quantomeno non sono un progetto da loro costruito a tavolino: come la DC da noi, sono l'attore più credibile con cui, seppur a malincuore, gli USA possono confrontarsi.

Non è quindi a mio avviso corretto parlare della loro ascesa come un fenomeno geopoliticamente eterodiretto: il loro consenso è reale, e le loro posizioni politiche non sono allineate a quelle occidentali su tanti temi. Tuttavia, è chiaro che di fronte alla sfida del potere cercheranno di avere un understanding col governo americano, anche per premunirsi da eventuali ritorni di fiamma militari.

Il vero dato da cui prendere spunto è purtroppo che il progetto politico di Nasser è oramai definitivamente morto: il panarabismo socialista è in disarmo, e la costruzione di una nuova sinistra araba (nonostante il buon risultato dell'Ettakatol tunisino, dei socialisti marocchini, di Al Karama in Egitto alle presidenziali) sarà ancora lunga. Oggi i fratelli musulmani esprimono le aspirazioni di un composito blocco sociale che spazia dalla media e piccola borghesia tradizionalista a classi popolari desiderose di un governo non corrotto. Stiamo attenti a non demonizzarli a priori, o a consegnarli integralmente a un campo (quello americano o peggio ancora quello delle petromonarchie) che non necessariamente li stima. Lo stesso vale per la Turchia, che ha cercato disvolgere un ruolo moderatore in Libia e che è stata a suo tempo grande sponsor di Assad, oltre a porsi oggi come punto di riferimento dei Fratelli Musulmani: la complessità delle lotte di potere tra islamisti conservatori e liberisti filoUSA e Erdogan e Davutoglu, che coltivano un progetto ottomanista e attento ai BRICS, non va sottovalutata.

LA DESTABILIZZAZIONE DELLA SIRIA E’ UN PUNTO IRRINUNCIABILE PER I FAUTORI DEL NEW BIG MIDDLE EAST

 di Giuseppe Angiuli
L’attentato dello scorso 18 luglio, in cui sono rimasti uccisi il ministro siriano della Difesa, Dawoud Rajiha, e il suo vice Assef Shawkat (cognato del Presidente Bashar al-Assad), avvenuto con tecnica da kamikaze all’interno delle mura del quartier generale della sicurezza a Damasco, dove era in corso un vertice tra il governo e i capi dell'intelligence siriana, segna finora il punto più alto dell’assalto al governo della nazione araba: fonti di queste ore da Damasco ci fanno sapere che all’attentato bombarolo contro i vertici della sicurezza nazionale ha fatto seguito un’irruenta azione messa in atto su larga scala da bande paramilitari composte da mercenari provenienti prevalentemente dalla Libia e fatti dirottare in Siria per portare a termine quello che, nella testa dei cospiratori contro il regime di Damasco, dovrebbe costituire l’assalto finale[1].

Appare fin troppo evidente la coincidenza tra l’escalation dello scontro in atto a Damasco con le parole di aperta minaccia rivolte ad Assad, solo pochi giorni prima dell’attentato, da una impaziente e acidissima Hillary Clinton, che aveva chiesto al legittimo Presidente siriano di togliere quanto prima il disturbo onde risparmiare al suo Paese “un attacco catastrofico”.

Il progetto volto a destabilizzare la Siria di Assad è in corso di svolgimento ormai da circa 1 anno e mezzo e si è apparentemente inserito in quel vasto processo politico regionale che, nel gergo mediatico-giornalistico di casa nostra, ha preso il nome di “rivoluzioni arabe”.

Mentre il progettato cambio di potere in Tunisia ed Egitto è stato (quasi) repentino e, tutto sommato, di facile realizzazione, per destabilizzare la Giamairiha libica di Gheddafi è stato necessario ricorrere ad intensi bombardamenti NATO mentre la Siria di Assad è sembrata fino ad oggi essere ancora in grado di reggere lo scontro con i suoi nemici, soprattutto a causa di due fattori: il diffuso sostegno di una parte significativa del popolo siriano (che ovviamente non è facile determinare quantitativamente ma che molti osservatori seri sono propensi a ritenere molto alto, quasi attorno ai 2/3 del totale della popolazione) e l’appoggio di potenze come Russia e Cina, il cui esercizio del diritto di veto in seno al Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha finora consentito alla Siria di sottrarsi a bombardamenti di tipo “libico”[2].

E’ molto importante esaminare da vicino la natura delle forze che compongono la coalizione aggressiva – attiva a partire dai primi mesi del 2011 – disposta a ricorrere a qualunque mezzo pur di abbattere il regime laico-nazionalista siriano fondato sulla centralità del Partito Baath.

Quali sono queste forze? E perché per loro è così importante abbattere il governo Assad?

Per offrire una risposta a tali interrogativi è necessario fare un passo indietro di alcuni anni e comprendere la progressiva evoluzione delle strategie dell’imperialismo USA-NATO e del conseguente quadro geopolitico nel vicino oriente (a proposito, è decisamente più corretto, per noi italiani, parlare di “vicino oriente” anziché di “medio oriente” in quanto tale ultima locuzione riflette passivamente l’angolatura statunitense, che considera “medio oriente” quell’arco di Paesi situati ad est del mediterraneo, mentre il “vicino oriente”, sempre per Washington, saremmo sostanzialmente noi, ossia i popoli europei).

Con l’avvento di George W. Bush alla Casa Bianca, nell’anno 2000, il gruppo di Neocons  che si pone alla guida degli Stati Uniti (Cheney, Rumsfeld, Wolfowitz, Rice) mette in atto la strategia del cosiddetto “scontro delle civiltà”. Tale disegno prevedeva la mobilitazione generale di tutti i popoli del cosiddetto “occidente” che si sarebbero dovuti convincere a compiere una guerra di lunga durata (avente i caratteri di vera e propria crociata a guida statunitense) contro i popoli di religione islamica, indicati come nemico strategico ed immanente, brutalmente disumanizzati e descritti come portatori di un odio intrinseco verso il nostro stile di vita, la nostra religione, i nostri costumi, ecc.

La ideologia dello scontro frontale tra “occidente civilizzato” ed “islam barbaro” era stata accuratamente congegnata nei laboratori del pensiero Made in U.S.A. e aveva avuto uno dei suoi primi fautori nel professore di Harward Samuel Huntington, autore nel 1993 dello scritto icasticamente titolato “Scontro delle civiltà” e pubblicato su Foreign Affairs, la rivista del Council on Foreign Relations[3].

Il presupposto della teoria dello “scontro delle civiltà” era il seguente: una volta crollata la potenza comunista URSS (già definita da Ronald Reagan “l’impero del male”), gli Stati Uniti, al fine di preservare per un lungo periodo il proprio ruolo di incontrastata egemonia unipolare, avrebbero dovuto indirizzare i propri sforzi principalmente verso il contenimento della Cina, la cui crescita economica impetuosa, già registrata nei primi anni ’90 del secolo scorso, aveva fatto sobbalzare sulle poltrone gli strateghi di Washington, consci del rischio di dover fronteggiare un nuovo concorrente emergente e difficile da contenere nel medio-lungo periodo.

Non potendo però permettersi di ingaggiare uno scontro frontale e diretto con la stessa Cina, per i maggiorenti di Washington occorreva creare un nemico immaginario, da agitare agli occhi dell’opinione pubblica dei Paesi occidentali al fine di creare compattezza psicologica nelle masse, elemento indefettibile ogniqualvolta il Potere desideri creare un clima di guerra: questo nemico inventato era appunto l’Islam, con tutti i suoi contorni di Al Qaeda, del “mostro” Osama bin Laden[4] e dei nostri giornalisti-megafono interessati al richiamo del Padrone (come Giuliano Ferrara) o semplicemente affetti da demenza senile (come la Fallaci dell’ultimo periodo).

L’evento catalizzatore che fu prodromico e funzionale a questo clima da mobilitazione generale per una nuova “guerra santa” contro l’Islam è stato rappresentato – come tutti sappiamo – dagli attentati dell’11 settembre 2001, nella cui organizzazione ormai moltissimi osservatori al mondo, unitamente ad una grossa fetta di opinione pubblica globale, danno per scontata la co-partecipazione di pezzi significativi delle forze armate e dei servizi di sicurezza americani[5].

Col pretesto di una nuova e lunga “guerra al terrorismo”, dunque, è arrivata prima l’invasione dell’Afghanistan (dichiaratamente motivata dalla necessità di catturare bin Laden ma in realtà attuata per consentire l’installazione di basi militari in una regione strategica alle porte della Cina) e poi quella dell’Iraq (portatore del secondo giacimento petrolifero più capiente al mondo).
Nella folle strategia di attacco frontale all’Islam concepita dai Neocons (ma, come si è detto, in realtà si trattava di una strategia di avvicinamento e di accerchiamento della Cina) era stata fin dall’inizio messa in conto l’estensione del conflitto di tipo tradizionale anche alla Siria ed all’Iran in quanto, nella mente degli strateghi di Washington, si pensava che le operazioni militari nei teatri afghano ed iracheno non avrebbero dovuto creare quei problemi inattesi che poi, di fatto, hanno intralciato non poco i piani di dominio imperiale della potenza a stelle e strisce[6].

Ma ad un certo punto del secondo mandato alla presidenza di George W. Bush, qualcuno ai piani alti dell’establishment  americano si rende conto del carattere propriamente folle della strategia dello “scontro di civiltà” e della non praticabilità a lungo termine di una logica di guerra infinita.
Infatti, nonostante nessuna potenza al mondo possa ancora oggi contrastare il predominio tecnologico dell’armamentario bellico U.S.A., è noto che nella storia recente le truppe statunitensi si siano spesso dimostrate poco efficaci sul terreno dello scontro militare diretto in campo aperto e pertanto incapaci, alla lunga distanza, di controllare un territorio di ampie dimensioni.

Inoltre, a Washington ci si rende conto che una strategia basata sull’islamofobia (intesa quale strumento di propaganda mediatica) e sull’occupazione diretta di territori di Stati sovrani da parte dell’esercito a stelle e strisce, oltre a comportare una ricaduta pesantissima in termini di bilancio  del Pentagono, avrebbe finito presto per attirare sugli Stati Uniti (percepiti come potenza neo-coloniale in senso stretto) un odio generale da parte di circa 4/5 dell’umanità.

A questo punto, durante l’ultimo biennio della Presidenza Bush, dopo la grave sconfitta elettorale subita dai Repubblicani alle elezioni di mid terme per il rinnovamento del parlamento, si corre ai ripari concependo una revisione generale della strategia del New Big Middle East (ossia “Nuovo grande Medio Oriente”): la svolta avviene alla fine del 2006 con la rimozione del “falco” Donald Rumsfeld dalla posizione di Segretario di Stato alla Difesa, a cui fa seguito, pochi mesi dopo, la defenestrazione del Capo di Stato Maggiore della Difesa, il generale Peter Pace, di non lontane origini pugliesi.

Ai vertici del Pentagono si insedia in quel momento Robert Gates, il quale comincia a farsi interprete di una nuova linea strategica definita “realista” (una linea solo apparentemente più moderata di quella dei Neocons) non più basata sui toni da crociata verso l’Islam bensì su piani di attacco più sottili e subdoli. I veri strateghi della nuova linea “realista” sono l’immarcescibile Henry Kissinger (di marca repubblicana, mente del colpo di Stato contro Salvador Allende in Cile nel 1973, anno in cui fu destinatario anche del Premio Nobel per la pace) e l’ex Consigliere alla Sicurezza nazionale del Presidente Carter, il polacco Zbigniew Brzezinski.

La nuova linea “realista” – elaborata dai due prefati strateghi - comporta la necessità per gli U.S.A. di abbandonare lo scenario della fantomatica “guerra al terrorismo islamico” ed anzi, di fare leva proprio sull’islam  radicale quale preziosa risorsa politica e quale fraterno  alleato da impiegare su larga scala come fattore di destabilizzazione in operazioni di “guerra sporca” o “coperta” (molto simile alla guerra a bassa intensità attuata dai contras  in Nicaragua).

Questa operazione di maquillage dinanzi al mondo esigeva di porre alla Casa Bianca una figura che potesse illudere soprattutto i Paesi in via di sviluppo (Africa, America latina, sud-est asiatico) sul presunto cambio di rotta attuato ai vertici della prima potenza globale: ed ecco che l’individuo ritenuto più idoneo al raggiungimento di un’operazione che è soprattutto da intendersi quale trucco mediatico viene trovato in Barack Hussein Obama, nero (a metà) e dal secondo nome vagamente arabofono. Ma quel che conta di più nella figura di Obama è che lui è, prima di ogni altra cosa, un pupillo di Zbigniew Brzezinski[7], nel cui laboratorio politico è stato interamente forgiato.

In sostanza, con l’avvento di Obama alla Casa Bianca, gli obiettivi di fondo degli Stati Uniti rimangono intatti, quantunque ne mutino lo stile e la strategia per conseguirli: occorre ridisegnare politicamente l’intero mondo arabo e islamico, un immenso territorio che va dal Maghreb africano fino quasi alle porte della Cina, per cingere d’assedio il gigante asiatico ed incunearsi in una zona strategica con l’obiettivo di impedire alla stessa Cina ed alla Russia (ora nuovamente temuta da Brzezinski e dagli americani) di integrarsi reciprocamente, come di fatto sta avvenendo nell’ambito dell’inedita alleanza militare di Shangai (S.C.O.). E, laddove non sia più possibile instaurare governi direttamente rispondenti a Washington, secondo la linea di Obama-Brzezinski bisogna comunque seminare confusione e provocare scontri inter-religiosi, cosa ben possibile sia in Egitto che in Siria, data la presenza di ampie comunità cristiane al fianco di maggioranze musulmane: è la cosiddetta geopolitica del caos.

Due sono i momenti che segnano simbolicamente la svolta di Obama-Brzezinski: il primo è costituito dal discorso del Presidente americano pronunciato dinanzi all’Università islamica Al-Azhar del Cairo il 4.6.2009, in cui Obama ha parlato di un “nuovo inizio” nei rapporti tra occidente e islam.
E un “nuovo inizio” c’è stato per davvero, dato che, a partire da quel momento, gli Stati Uniti (d’intesa con la Gran Bretagna), al fine di perseguire l’obiettivo di attuare il regime change nei Paesi non ad essi allineati, hanno sostituito la tecnica della tradizionale guerra d’invasione con l’impiego di milizie di mercenari irregolari addestrati e motivati proprio con il valore unificante dell’islamismo radicale!

Il secondo momento simbolico che ha segnato il passaggio da una strategia ad un’altra è rappresentato dalla clamorosa messinscena, celebrata il 2 maggio 2011, della finta cattura e uccisione dell’orco cattivo Osama bin Laden, dichiaratamente sepolto nei fondali marini dell’oceano indiano giusto al fine di sottrarlo agli occhi indiscreti dei più scettici.

Come in tutte le migliori fiction  televisive americane, la saga della “guerra al terrorismo islamico” non poteva dunque che concludersi, per soddisfare le aspettative del grande pubblico, con la cattura e l’uccisione del capo dei capi, finalmente sistemato a dovere[8].

Nella destabilizzazione di Libia e Siria, pertanto, si è segnalato e si sta segnalando un impiego abbondante e decisivo, da parte degli USA e dei loro alleati, di milizie islamiche reclutate nelle aree più depresse e arretrate dei paesi arabi, a cominciare dalla Cirenaica (est della Libia), dove quel “matto” di Mohammar Gheddafi non a caso aveva segnalato fin dai primi istanti della rivolta nel suo Paese la presenza di cellule legate ad Al Qaeda!

Al contempo, nella retorica americana (e, conseguentemente, di tutti i nostri mass media) è quasi totalmente scomparso il pericolo del terrorismo islamico: il “Ministero della Paura” di orwelliana memoria ha recentemente trovato nella gravissima crisi capitalistica scoppiata nel 2007-2008 il nuovo argomento per traumatizzare e paralizzare le masse, potendo dunque mettere da parte il pericolo islamico.

Sempre nell’opera di destabilizzazione della Siria (e della Libia) gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, inoltre, hanno trovato degli alleati regionali solidissimi: in primis la Turchia di Erdogan, a cui nel nuovo scenario verrebbe affidato il compito di sub-potenza regionale, alimentandone i fasti e le ambizioni legate all’esperienza storica dell’Impero ottomano; in second’ordine, alla aggressione armata alla Siria ed al suo legittimo governo partecipa, con un ruolo altrettanto importante, un arco di forze legate da un collante ideologico-religioso fondato sull’islam radicale: i monarchi assoluti dell’Arabia Saudita e del Qatar (entrambi affiliati alla corrente salafita, per i quali il laico Bashar al-Assad è un governante “impuro” e “sacrilego”) stanno contribuendo al grande piano con un ingente apporto di finanziamenti e, quanto all’emiro del Qatar, anche con il decisivo apporto mediatico fornito da Al Jazeera, network  pan-arabo che ha sempre sostenuto, fin dal primo istante, le cosiddette rivolte arabe. A quest’arco di forze aggressive, inoltre, si lega l’azione politica dei Fratelli Musulmani (da poco insediatisi ai vertici del potere egiziano e anch’essi largamente supportati dagli americani) e del movimento palestinese integralista Hamas, il cui gruppo dirigente, non a caso, ha abbandonato il suo storico quartier generale di Damasco mettendosi sotto la protezione di Turchia e Qatar.

Nello scenario descritto, la Siria di Bashar al-Assad deve necessariamente essere destabilizzata per fare posto ad un nuovo governo egemonizzato da islamisti radicali proni agli interessi della Turchia e dell’occidente. Non può esserci più posto per l’ultimo governo ispirato da principi di nazionalismo laico e pan-arabo di derivazione nasseriana.

Assad deve andarsene!” pronunciano all’unisono tutti gli autori dell’intrigo contro la Siria[9], senza ormai nemmeno preoccuparsi di salvare l’apparente conservazione dei principi più basilari del sistema di diritto internazionale, che con l’art. 2 della carta fondativa dell’O.N.U., dovrebbe fare sempre salvo il principio di sovranità delle nazioni (senza che su tanto possa minimamente influire la particolare forma di governo o il tipo di organizzazione politico-istituzionale da esse sposate).

Un ultimo accenno, doloroso e davvero deprimente, meritano le parole del Ministro (o ambasciatore?) Terzi del nostro governo coloniale a guida Mario Monti.
Giulio Terzi di Sant'Agata, forse confondendo il ruolo di titolare di dicastero di un governo di un Paese sovrano - come è (o dovrebbe essere) l’Italia - con quello di mero portavoce di governi stranieri, ha dichiarato ineffabilmente, a margine degli attentati di Damasco del 18 luglio in cui sono morte personalità di primo piano di un altro governo sovrano di una nazione aderente alla comunità internazionale, che deve essere Assad a fare le valigie (e non i terroristi islamisti che seminano morte e terrore per tutta la Siria), senza spendere una sola parola di condanna per gli autori di un attentato che dovrebbe imbarazzare non poco tutti i Paesi che stanno impunemente lavorando alla distruzione di una nazione pacifica, multi-religiosa e multi-culturale quale è la Siria.

Come siamo caduti in basso! E’ triste notare come al dicastero che un tempo fu occupato da Pietro Nenni e Aldo Moro, ora siede un mero portavoce del Dipartimento di Stato americano.


                                                                                                                                        Giuseppe Angiuli



 NOTE:

[1] Thierry Meyssan (Réseau Voltaire), La battaglia di Damasco è iniziata, 19 luglio 2012, in http://aurorasito.wordpress.com/2012/07/19/la-battaglia-di-damasco-e-iniziata/

[2] Per la terza volta in pochi mesi, il 19 luglio scorso la Russia e la Cina sono tornate ad opporre il diritto di veto ad una bozza di risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che contemplava l’uso di maniere forti contro Damasco.

[3] Il Council of Foreign Relations è considerato uno degli organismi più decisivi nello studio e nella definizione delle strategie globali della potenza statunitense (http://www.cfr.org/)

[4] I bene informati sanno che lo sceicco Osama bin Laden ha lavorato fin dai primi anni ’80 del Novecento al servizio della C.I.A., che gli affidò il compito di formare un esercito di combattenti islamici col fine di destabilizzare l’Afghanistan allora occupata dall’esercito sovietico. Successivamente, negli anni ’90, diversi testimoni, tra cui Giulietto Chiesa, hanno ricostruito un ruolo analogo dello stesso bin Laden all’interno del conflitto jugoslavo, dove lo sceicco saudita avrebbe collaborato a creare delle milizie islamiche contigue al Presidente bosniaco musulmano Alija Izetbegović. Per un “assaggio” visivo dei mujahideen arabi operanti a suo tempo in Bosnia, cfr. http://www.youtube.com/watch?v=vFsfCD4Z_RQ&feature=youtu.be.

[5] Il testo più completo tra quelli che approfondiscono l’interpretazione “dietrologica” degli eventi dell’11 settembre 2001 è quello scritto dall’analista americano Webster Griffin Tarpley, “La fabbrica della menzogna”, pubblicato in Italia da Arianna Editrice.

[6] I fallimenti più clamorosi degli obiettivi strategici connessi alle guerre di Afghanistan ed Iraq sono stati i seguenti: nel primo caso, l’insediamento delle truppe di occupazione della NATO non ha comunque impedito ai Paesi dell’area asiatica post-sovietica (Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tagikistan, Uzbekistan) di integrarsi nella inedita alleanza militare con Russia e Cina, la S.C.O., cosiddetta “NATO dell’Est” (http://www.sectsco.org/); nel caso iracheno, gli USA, nonostante le apparenze, non sono riusciti a mettere propriamente le mani sul petrolio, mentre, con l’avvento della componente sciita al governo di Baghdad, si è dato spazio ad una influenza iraniana sull’Iraq impensabile fino a pochi anni fa.

[7] Per una biografia “unauthorized” di Obama, cfr. Webster Griffin Tarpley, “Obama dietro la maschera. La strategia dell'illusione: golpismo mondiale sotto un fantoccio di Wall Street”,  2011, Fuoco Edizioni.

[8] In realtà, moltissime testimonianze sembrano accreditare la tesi secondo cui bin Laden fosse morto al più tardi nel 2006, come pure asserito dall’ex Presidente pakistana Benazir Bhutto in una delle sue ultime apparizioni televisive (cfr. www.youtube.com/watch?v=L2Twb8WwD1U).

[9] Cfr. Alessandro Lattanzio, “Intrigo contro la Siria. La Siria Baathista tra geopolitica, imperialismo e terrorismo”,  edizioni Anteo.

venerdì 20 luglio 2012

Grandezza e miseria dell'Occidente

Contro l'irrazionalismo ed il fondamentalismo anti-occidentale dell'ala postmoderna della sinistra riporto un interessatissimo brano di una intervista a Cornelius Castoriadis, uno dei massimi filosofi francesi (di origine greca), esponente di quella cultura socialista e comunista libertaria che ebbe nella rivista "Socialisme ou Barbarie" la sua espressione, In Italia Riccardo Lombardi e Raniero Panzieri ne subirono l'influenza: "Cornélius Castoriadis".
  Giuseppe Giudice

Credo che i due termini che lei oppone siano alla fine uno solo. In buona parte, l’ideologia e la mistificazione decostruzionistiche fanno leva sul senso di colpa dell’Occidente; esse scaturiscono da un miscuglio illegittimo in cui la critica del razionalismo strumentale e strumentalizzato è surrettiziamente confusa con la denigrazione delle idee di verità, di autonomia, di responsabilità. Si fa leva sul senso di colpa dell’Occidente – responsabile del colonialismo, dello sterminio di altre culture, dei regimi totalitari – per arrivare a una critica, fallace e autoreferenzialmente contraddittoria, del progetto greco-occidentale di autonomia individuale e collettiva, delle aspirazioni all’emancipazione, delle istituzioni nelle quali queste ultime si sono, anche se in modo imperfetto, incarnate.


Da secoli, l’Occidente moderno è animato da due “significazioni immaginarie” sociali opposte, che pure si sono influenzate a vicenda: da un lato, il progetto di autonomia individuale e collettiva, la lotta per l’emancipazione intellettuale, spirituale e concreta nella realtà sociale dell’essere umano; e, dall’altro, il progetto capitalistico, demenziale, di un’espansione illimitata di uno pseudo-controllo pseudo-razionale che da molto tempo ha smesso di riguardare soltanto le forze produttive e l’economia per diventare un progetto globale (e dunque ancora più mostruoso) di controllo totale dei dati fisici, biologici, psichici, sociali, culturali. Il totalitarismo è solo la punta più estrema di questo progetto di dominio – che d’altronde contiene i germi della sua stessa contraddizione, perché anche la razionalità ristretta e strumentale del capitalismo classico diventa nel totalitarismo irrazionalità e assurdità, come stanno a dimostrare il nazismo e lo stalinismo.
Per tornare alla sua domanda, lei ha ragione nel dire che noi oggi non viviamo in una krisis nel vero senso del termine, cioè in un momento di “decisione” (negli scritti di Ippocrate, la krisis, la crisi di una malattia, è il momento parossistico in capo al quale il malato o muore o, grazie a una reazione provocata dalla crisi stessa, intraprende il cammino della guarigione). Noi viviamo una fase di decomposizione. In una crisi, ci sono elementi opposti che si combattono; invece, ciò che caratterizza la società contemporanea è la scomparsa del conflitto sociale e politico. La gente scopre ora quel che scrivevamo trenta o quarant’anni fa in Socialisme ou barbarie, cioè che l’opposizione destra/sinistra non ha più alcun senso: i partiti politici ufficiali dicono la stessa cosa. Non esistono programmi davvero opposti, né partecipazione della gente ai conflitti o alle battaglie politiche, o anche solo all’attività politica. Sul piano sociale, non c’è soltanto la burocratizzazione dei sindacati e la riduzione drastica del loro ruolo, ma la quasi scomparsa delle lotte sociali. Ma la decomposizione si vede soprattutto nella scomparsa dei significati, nell’evanescenza quasi totale dei valori. Ed è questa che, alla lunga, può minare la sopravvivenza del sistema stesso. Quando si proclama apertamente, come succede in tutte le società occidentali, che il solo valore sono i soldi, il profitto, che l’ideale sublime della vita sociale è l’arricchimento, è difficile pensare che una società possa continuare a funzionare e a riprodursi solo su questa base. Ma se così è, i funzionari dovrebbero chiedere e accettare mance per fare il loro lavoro, i giudici mettere all’asta le decisioni dei tribunali, gli insegnanti dare buoni voti agli alunni i cui genitori hanno firmato un lauto assegno, e via di seguito.

Già quindici anni fa scrivevo di questo: l’unica cosa che trattiene la gente dall’assumere questi comportamenti è la paura di una sanzione penale. Ma perché coloro che dovrebbero amministrare questa sanzione penale dovrebbero essere incorruttibili? Insomma, chi dovrebbe controllare i guardiani? La corruzione generalizzata che si osserva nel sistema politico-economico contemporaneo non è periferica o occasionale, è diventata un tratto strutturale e sistemico della società in cui viviamo. Arriviamo così a un fattore fondamentale che i grandi pensatori politici del passato conoscevano e che i cosiddetti “filosofi politici” di oggi – cattivi sociologi e peggiori teorici – ignorano alla grande: l’intima solidarietà tra un regime sociale e il tipo antropologico necessario per farlo funzionare. In gran parte, il capitalismo ha ereditato i tipi antropologici dei periodi storici precedenti: il giudice incorruttibile, il funzionario weberiano, l’insegnante dedito al suo compito, l’operaio per il quale il suo lavoro, nonostante tutto, è una ragione d’orgoglio. Personaggi del genere diventano inconcepibili nel mondo contemporaneo: non si vede perché dovrebbero essere prodotti, chi li produrrebbe e nel nome di che cosa funzionerebbero. Anche il tipo antropologico che è una creazione propria del capitalismo, l’imprenditore schumpeteriano – colui che combina inventività tecnica, capacità di riunire i capitali, di organizzare un’impresa, di esplorare, di penetrare, di creare i mercati – sta per scomparire. Per essere rimpiazzato da manager burocrati e da speculatori. Anche in questo caso, tutti i fattori cospirano.
La storia dell’Occidente è fatta di un’accumulazione di orrori – contro gli altri, ma anche contro se stesso. Ma questa non è una specialità dell’Occidente: che si tratti di Cina, di India, di Africa prima della colonizzazione o degli aztechi, l’accumulazione di orrori è ovunque. La storia dell’umanità non è la storia della lotta di classe, è la storia degli orrori, anche se non solo di quella. C’è, è vero, da risolvere il problema del totalitarismo: si tratta, come io penso, dell’ovvia conseguenza dell’eccesso di controllo all’interno di una cultura che era in grado di produrre strumenti di sterminio e di indottrinamento a un livello prima sconosciuto nella storia? Oppure di un destino perverso immanente alla modernità in quanto tale, con tutte le ambiguità di cui è portatrice? O, ancora, di altro? In questa nostra discussione, si tratta di un problema che oserei definire teorico, perché l’Occidente ha rivolto gli orrori del totalitarismo contro se stesso (ebrei compresi). Non è stato Lenin a dichiarare “sterminateli tutti, Dio riconoscerà i suoi”, ma un cristianissimo duca del XVI secolo; così come i sacrifici umani sono stati abbondantemente e regolarmente praticati nelle culture non europee. L’Iran di Khomeini non è un prodotto dell’Illuminismo.

Ma c’è un elemento che è specificamente occidentale e che possiamo definire il pesante privilegio dell’Occidente: la sequenza storicosociale che comincia con la Grecia e che viene ripresa, a partire dall’XI secolo, in Europa occidentale, è la sola e unica nella quale si veda emergere un progetto di libertà, di autonomia individuale e collettiva, di critica e di autocritica: la capacità di autodenuncia dell’Occidente ne è la conferma più evidente. In Occidente, siamo capaci (almeno una parte di noi) di denunciare il totalitarismo, il colonialismo, la tratta degli schiavi o lo sterminio degli Indiani d’America. Invece non ho mai sentito i discendenti degli aztechi, gli indù o i cinesi fare un’autocritica analoga, e ancora aspetto di sentire i giapponesi denunciare le atrocità da loro compiute durante la Seconda Guerra Mondiale.
Gli arabi denunciano continuamente la colonizzazione da parte degli europei, imputando ad essa tutti i mali di cui soffrono – miseria, mancanza di democrazia, mancato sviluppo della cultura araba, e così via. Ma la colonizzazione di alcuni paesi arabi è durata, nel peggiore dei casi, 130 anni: è il caso dell’Algeria, dal 1830 al 1962. Ma quegli stessi arabi sono stati ridotti in schiavitù e colonizzati dai turchi per cinque secoli. La dominazione turca nel Vicino e Medio Oriente inizia nel XV secolo e si conclude nel 1918. Ma si dà il caso che i turchi fossero musulmani, e dunque gli arabi preferiscono non parlarne. Lo sviluppo della cultura araba si è arrestato verso l’XI secolo, otto secoli prima della conquista da parte occidentale. E quella stessa cultura araba era stata fondata sulla conquista, sullo sterminio e/o sulla conversione più o meno forzata delle popolazioni sottomesse. In Egitto, nel 550 d.C., non c’erano gli arabi – non più che in Libia, in Algeria, in Marocco o in Iraq. Ciò nonostante, non sento levarsi alcuna autocritica dagli ambienti intellettuali arabi. Analogamente, si parla della tratta degli schiavi da parte degli europei a partire dal XVI secolo, ma non si dice mai che la tratta e la riduzione sistematica in schiavitù dei neri era stata introdotta in Africa dai mercanti arabi a partire dall’XI-XII secolo, con la complicità ovvia dei re e dei capi tribù locali. Non voglio certo affermare che tutto questo cancelli i crimini commessi dall’Occidente; dico soltanto che la specificità della cultura occidentale è la capacità di mettersi in discussione e di autocriticarsi. Nella storia occidentale, come in tutte le altre, ci sono atrocità e orrori, ma solo l’Occidente è stata in grado di creare questa capacità di contestazione interna, di messa in discussione delle proprie istituzioni e delle proprie idee nel nome di un confronto ragionevole tra esseri umani – confronto che resta aperto e che non conosce dogmi definitivi.
Cornélius Castoriadis
Mirabile intervento che mette in risalto la grandezza e la miseria dell'Occidente. La prima consiste nella dialettizzazione del suo percorso diacronico, nel considerare cioè il divenire della storia come un rimettersi continuamente in discussione, un processo eracliteo in cui le contraddizioni emergono ma, hegelianamente, portano prima ad un confronto e poi ad una sintesi. La seconda consiste nell'abbandono degli imperativi categorici a favore di quelli ipotetici, e, per di più nella totale inversione di tale processo, nella esaltazione cioè di quell'imperativo ipotetico utilitarista che mette continuamente al primo posto il vantaggio effimero, perché il profitto fine a se stesso non è altro che questo. Senza il recupero dell'imperativo necessario della prassi morale non ci può essere sintesi, perché non esiste reciprocità e riconoscimento e così, anche la dialettica della storia va incontro alla illusione di un eterno ritorno dell' effimero che maschera la sua fine. Solo con la riscoperta di una ulteriore grandezza e capacità di dialettizzare anche quello che sembra ormai il suo orizzonte ultimo e che fa pensare al suo tramonto, l'Occidente potrà superare l'inganno della sua fine autodistruttiva, rimettendo così in discussione l'ineluttabilità della prospettiva neoliberista come dimensione metafisica ed inequivocabile.
Carlo Felici

Noi occidentali, principali responsabili

Leonardo Boff
Teologo/filosofo
Il complesso di crisi che mette in ginocchio l’umanità ci obbliga a fermarci e a fare un bilancio. È il momento filosofante di ogni osservatore critico, se per caso voglia andare al di là dei discorsi convenzionali e autoreferenziali. Perché siamo arrivati all’attuale situazione che obiettivamente minaccia il futuro della vita umana e della nostra opera civilizzatrice? Rispondiamo senza ulteriori giustificazioni: principale causa di questo percorso sono coloro che negli ultimi secoli hanno detenuto il potere, il sapere, e la ricchezza. Essi si erano proposti di dominare la natura, conquistare il mondo intero, soggiogare i popoli e mettere tutto a servizio dei loro interessi. A questo scopo è stata utilizzata un’arma poderosa: la tecnoscienza. Con l’aiuto della scienza hanno scoperto come funziona la natura e con la tecnica hanno compiuto interventi a pro dell’essere umano, senza badare alle conseguenze.
Questi signori che hanno realizzato questa saga sono stati gli occidentali europei. Noi, latino americani siamo stati aggregati ad essi come un’appendice: l’estremo occidente. Questi occidentali, tuttavia, sono oggi estremamente perplessi. Si domandano sbalorditi: come possiamo stare nell’occhio della crisi, se possediamo il miglior sapere, la migliore democrazia, la migliore coscienza dei diritti, la migliore economia, la migliore tecnica, il miglior cinema, la maggior forza militare e la miglior religione, il cristianesimo? Ora, queste «conquiste» sono messe in pericolo, perché esse, nonostante il loro valore, innegabilmente non ci forniscono più nessun orizzonte di speranza. Spiacenti, ma il tempo occidentale è scaduto, passato ormai. Per questo ha perso qualsiasi legittimità e forza di convinzione.
Arnold Toynbee, analizzando le grandi civiltà, ha notato una costante storica: tutte le volte che l’arsenale per le sfide non è più sufficiente, le civiltà entrano in crisi, cominciano a corrompersi fino al collasso o finiscono per essere assimilate da un’altra. Questa apporta rinnovato vigore, nuovi sogni e nuovo scopi di vita personali e collettivi. Come verrà? E chi lo sa? Ecco la questione cruciale.
Quello che aggrava la crisi è la persistente arroganza occidentale. Perfino nel periodo di decadenza, gli occidentali si immaginano ancora come i referenti obbligatori per tutti. Secondo la Bibbia e secondo i greci questo comportamento costituiva la suprema deviazione, perché le persone si mettevano sullo stesso piano della divinità, stimata come referente supremo e Ultima Realtà. Chiamavano quest’atteggiamento «Hybris», che vuol dire arroganza e eccesso del proprio io. È stata l’arroganza che ha portato gli Stati Uniti, con ragioni false, in Iraq, poi in Afghanistan e prima ancora in America Latina, sostenendo per molti anni regimi dittatoriali e militari e la vergognosa Operazione Condor per la quale centinaia di leader di vari paesi dell’America Latina furono sequestrati e assassinati.
Con il nuovo presidente Barak Obama ci si aspettava un nuovo indirizzo, più multipolare, più rispettoso delle differenze culturali e compassionevole verso i più vulnerabili. Ameni inganni. Sta portando avanti il progetto imperiale sulla stessa linea del fondamentalista Bush. Non ha cambiato sostanzialmente niente in questa strategia dell’arroganza. Al contrario, ha inaugurato qualcosa di inaudito e perverso: una guerra non dichiarata usando, «droni» aerei senza equipaggio. Guidati elettronicamente a partire dalle fredde base militari nel Texas attaccano, uccidono leader singoli e perfino gruppi interi nel quale si suppone che stiano i terroristi.
Il cristianesimo stesso, nei suoi vari aspetti, si è distanziato dall’ecumenismo e sta assumendo tracce di fondamentalismo. C’è una gara nel mercato religioso per vedere quale delle denominazioni mette insieme più fedeli delle altre. Assistiamo nella Rio +20 alla stessa arroganza dei potenti, che rifiutano di partecipare e di cercare convergenze minime per alleviare la crisi della terra.
E pensare che, in fondo, cerchiamo la schietta utopia ben espressa da Pablo Milanes e Chico Buarque : «La storia potrebbe essere un’auto allegra, piena di gente contenta”.

Tradotto da Romano Baraglia

giovedì 19 luglio 2012

La libertà è il fine delle nostre azioni



Uno sguardo al decorso delle nostre società degli ultimi due secoli ci mostra oggi un'ala radicale ed anticapitalista prostrata, confusa e divisa, mentre l'avversario storico ha globalizzato il suo dominio sull'umanità, aggiornando i suoi metodi di intervento e di controllo sulle masse, imparando a trarre profitto dalle sue criticità sopratutto coinvolgendovi settori sempre più ampi.
Grazie al riformismo, al consumismo ed al collaborazionismo parlamentarista che ne ha aumentate le gambe che sorreggono la sua mefitica tavola.

A dispetto delle numerose ed abbondanti analisi prodotte al fine di individuarne i punti deboli, questo sistema di volta in volta ci ha sottoposti a sistemi sempre più aggiornati di sfruttamento, ci ha fatto passare attraverso guerre, genocidi, distruzioni di risorse umane ed ambientali, riuscendo a collocarsi sempre un passo più avanti, fuori della nostra portata. Quando poi, per circostanze del tutto casuali e non determinate dalle nostre volontà e dalle nostre previsioni siamo riusciti a spezzare questo anello che ci stringe la gola, siamo stati tanto tanto superbi e sprezzanti della storia dal voler continuare a gestire la società persistendo con sistemi sovrastrutturali che alla fine ci hanno ricondotto al punto di partenza, ci hanno ricondotto nell'alveo capitalista, alla sconfitta.

Evidentemente quella parte di noi che si è impadronita del potere e che ha sbandato, che ha tradito i sogni e le speranze di miliardi di esseri umani, non può continuare a dire che gli uomini hanno sbagliato ma che la teoria era ed è giusta! Evidentemente sono stati gli uomini che sono stati tratti in inganno da teorizzazioni errate, quindi le cause dei fallimenti vanno ricercate nella testa e non nelle braccia., nelle cause e non negli effetti. E non basta, perchè errato, attribuire ad una teoria la qualifica di scientifico per farla apparire convincente, solo la sperimentazione può attribuirle valore e valenza scientifica e quello che si chiede è anche la libertà di partecipazione. Chi ha ingannato il proletariato togliendogli queste facoltà, privandolo di un suo diritto naturale, non può più costituire punto di riferimento valido, la sua stagione verrà ricordata in quanto sincero rivoluzionario, ma anche in quanto tragico giacobino.

Io sono un volontarista, credo nella necessità di formare tante coscienze quanto ne bastino per dare una spallata finale a questo sistema, altri artifizi o superstizioni non mi appartengono, ma non escludo che possano intervenire, in corso d'opera, fatti e circostanze che possano anticipare l'evento sperato, in questo caso il compito di una avanguardia responsabile dovrà essere quello di vigilare affinchè il processo di autogestione venga salvaguardato e gli sia consentita la massima libertà di sperimentazione( Tutto il potere ai Soviet). Questo è il massimo che da anarchico posso concedere ad un periodo transitorio. Il bolscevico Myasnikov dagli urali ebbe modo di richiamare Lenin e Trotzky sulla necessità di consentire " dai monarchici agli anarchici inclusi" ampia libertà di stampa e sperimentazione, c'era anche Pietrogrado e Kronstadt, oltre alla Ukraina di Machno.

Machno contribuì in maniera più che determinante alla sconfitta delle armate bianche di Denikin ed in cambio ebbe dal comandante della armata rossa, Trotzky, tradimento, repressione, sterminio ed esilio dei suoi militanti. Anni dopo, nelle sue memorie, Alessandra Kollontai ebbe modo di confermare che Lenin aveva promesso a Machno ampia autonomia alla Ukraina in cambio del suo appoggio alla lotta contro i Bianchi. L'appoggio determinante ci fu, ma ne seguì il più vigliacco dei tradimenti, il delirio poi si completò con l'avvento al potere, non casuale, di Stalin, l'"acciaio" del regime.

La libertà è il fine delle nostre azioni e del nostro progetto e la liberazione deve rappresentare il mezzo dell'approssimazione a questo fine.

Lo scoriame di cui sopra va quindi eliminato da un possibile progetto di ricostruzione di una casa che pretende di presentarsi come alternativa per un futuro possibile, altrimenti non vedo futuro.

Alfredo Mazzucchelli