Contro l'irrazionalismo ed il fondamentalismo anti-occidentale dell'ala postmoderna della sinistra riporto un interessatissimo brano di una intervista a Cornelius Castoriadis, uno dei massimi filosofi francesi (di origine greca), esponente di quella cultura socialista e comunista libertaria che ebbe nella rivista "Socialisme ou Barbarie" la sua espressione, In Italia Riccardo Lombardi e Raniero Panzieri ne subirono l'influenza: "Cornélius Castoriadis".
Giuseppe Giudice
Credo
che i due termini che lei oppone siano alla fine uno solo. In buona
parte, l’ideologia e la mistificazione decostruzionistiche fanno leva
sul senso di colpa dell’Occidente; esse scaturiscono da un miscuglio
illegittimo in cui la critica del razionalismo strumentale e
strumentalizzato è surrettiziamente confusa con la denigrazione delle
idee di verità, di autonomia, di responsabilità. Si fa leva sul senso di
colpa dell’Occidente – responsabile del colonialismo, dello sterminio
di altre culture, dei regimi totalitari – per arrivare a una critica,
fallace e autoreferenzialmente contraddittoria, del progetto
greco-occidentale di autonomia individuale e collettiva, delle
aspirazioni all’emancipazione, delle istituzioni nelle quali queste
ultime si sono, anche se in modo imperfetto, incarnate.
Da secoli, l’Occidente moderno è animato da due “significazioni immaginarie” sociali opposte, che pure si sono influenzate a vicenda: da un lato, il progetto di autonomia individuale e collettiva, la lotta per l’emancipazione intellettuale, spirituale e concreta nella realtà sociale dell’essere umano; e, dall’altro, il progetto capitalistico, demenziale, di un’espansione illimitata di uno pseudo-controllo pseudo-razionale che da molto tempo ha smesso di riguardare soltanto le forze produttive e l’economia per diventare un progetto globale (e dunque ancora più mostruoso) di controllo totale dei dati fisici, biologici, psichici, sociali, culturali. Il totalitarismo è solo la punta più estrema di questo progetto di dominio – che d’altronde contiene i germi della sua stessa contraddizione, perché anche la razionalità ristretta e strumentale del capitalismo classico diventa nel totalitarismo irrazionalità e assurdità, come stanno a dimostrare il nazismo e lo stalinismo.
Per tornare alla sua domanda, lei ha ragione nel dire che noi oggi non viviamo in una krisis nel vero senso del termine, cioè in un momento di “decisione” (negli scritti di Ippocrate, la krisis, la crisi di una malattia, è il momento parossistico in capo al quale il malato o muore o, grazie a una reazione provocata dalla crisi stessa, intraprende il cammino della guarigione). Noi viviamo una fase di decomposizione. In una crisi, ci sono elementi opposti che si combattono; invece, ciò che caratterizza la società contemporanea è la scomparsa del conflitto sociale e politico. La gente scopre ora quel che scrivevamo trenta o quarant’anni fa in Socialisme ou barbarie, cioè che l’opposizione destra/sinistra non ha più alcun senso: i partiti politici ufficiali dicono la stessa cosa. Non esistono programmi davvero opposti, né partecipazione della gente ai conflitti o alle battaglie politiche, o anche solo all’attività politica. Sul piano sociale, non c’è soltanto la burocratizzazione dei sindacati e la riduzione drastica del loro ruolo, ma la quasi scomparsa delle lotte sociali. Ma la decomposizione si vede soprattutto nella scomparsa dei significati, nell’evanescenza quasi totale dei valori. Ed è questa che, alla lunga, può minare la sopravvivenza del sistema stesso. Quando si proclama apertamente, come succede in tutte le società occidentali, che il solo valore sono i soldi, il profitto, che l’ideale sublime della vita sociale è l’arricchimento, è difficile pensare che una società possa continuare a funzionare e a riprodursi solo su questa base. Ma se così è, i funzionari dovrebbero chiedere e accettare mance per fare il loro lavoro, i giudici mettere all’asta le decisioni dei tribunali, gli insegnanti dare buoni voti agli alunni i cui genitori hanno firmato un lauto assegno, e via di seguito.
Già
quindici anni fa scrivevo di questo: l’unica cosa che trattiene la
gente dall’assumere questi comportamenti è la paura di una sanzione
penale. Ma perché coloro che dovrebbero amministrare questa sanzione
penale dovrebbero essere incorruttibili? Insomma, chi dovrebbe
controllare i guardiani? La corruzione generalizzata che si osserva nel
sistema politico-economico contemporaneo non è periferica o occasionale,
è diventata un tratto strutturale e sistemico della società in cui
viviamo. Arriviamo così a un fattore fondamentale che i grandi pensatori
politici del passato conoscevano e che i cosiddetti “filosofi politici”
di oggi – cattivi sociologi e peggiori teorici – ignorano alla grande:
l’intima solidarietà tra un regime sociale e il tipo antropologico
necessario per farlo funzionare. In gran parte, il capitalismo ha
ereditato i tipi antropologici dei periodi storici precedenti: il
giudice incorruttibile, il funzionario weberiano, l’insegnante dedito al
suo compito, l’operaio per il quale il suo lavoro, nonostante tutto, è
una ragione d’orgoglio. Personaggi del genere diventano inconcepibili
nel mondo contemporaneo: non si vede perché dovrebbero essere prodotti,
chi li produrrebbe e nel nome di che cosa funzionerebbero. Anche il tipo
antropologico che è una creazione propria del capitalismo,
l’imprenditore schumpeteriano – colui che combina inventività tecnica,
capacità di riunire i capitali, di organizzare un’impresa, di esplorare,
di penetrare, di creare i mercati – sta per scomparire. Per essere
rimpiazzato da manager burocrati e da speculatori. Anche in questo caso,
tutti i fattori cospirano.
La storia dell’Occidente è fatta di
un’accumulazione di orrori – contro gli altri, ma anche contro se
stesso. Ma questa non è una specialità dell’Occidente: che si tratti di
Cina, di India, di Africa prima della colonizzazione o degli aztechi,
l’accumulazione di orrori è ovunque. La storia dell’umanità non è la
storia della lotta di classe, è la storia degli orrori, anche se non
solo di quella. C’è, è vero, da risolvere il problema del totalitarismo:
si tratta, come io penso, dell’ovvia conseguenza dell’eccesso di
controllo all’interno di una cultura che era in grado di produrre
strumenti di sterminio e di indottrinamento a un livello prima
sconosciuto nella storia? Oppure di un destino perverso immanente alla
modernità in quanto tale, con tutte le ambiguità di cui è portatrice? O,
ancora, di altro? In questa nostra discussione, si tratta di un
problema che oserei definire teorico, perché l’Occidente ha rivolto gli
orrori del totalitarismo contro se stesso (ebrei compresi). Non è stato
Lenin a dichiarare “sterminateli tutti, Dio riconoscerà i suoi”, ma un
cristianissimo duca del XVI secolo; così come i sacrifici umani sono
stati abbondantemente e regolarmente praticati nelle culture non
europee. L’Iran di Khomeini non è un prodotto dell’Illuminismo.
Ma
c’è un elemento che è specificamente occidentale e che possiamo
definire il pesante privilegio dell’Occidente: la sequenza
storicosociale che comincia con la Grecia e che viene ripresa, a partire
dall’XI secolo, in Europa occidentale, è la sola e unica nella quale si
veda emergere un progetto di libertà, di autonomia individuale e
collettiva, di critica e di autocritica: la capacità di autodenuncia
dell’Occidente ne è la conferma più evidente. In Occidente, siamo capaci
(almeno una parte di noi) di denunciare il totalitarismo, il
colonialismo, la tratta degli schiavi o lo sterminio degli Indiani
d’America. Invece non ho mai sentito i discendenti degli aztechi, gli
indù o i cinesi fare un’autocritica analoga, e ancora aspetto di sentire
i giapponesi denunciare le atrocità da loro compiute durante la Seconda
Guerra Mondiale.
Gli arabi denunciano continuamente la
colonizzazione da parte degli europei, imputando ad essa tutti i mali di
cui soffrono – miseria, mancanza di democrazia, mancato sviluppo della
cultura araba, e così via. Ma la colonizzazione di alcuni paesi arabi è
durata, nel peggiore dei casi, 130 anni: è il caso dell’Algeria, dal
1830 al 1962. Ma quegli stessi arabi sono stati ridotti in schiavitù e
colonizzati dai turchi per cinque secoli. La dominazione turca nel
Vicino e Medio Oriente inizia nel XV secolo e si conclude nel 1918. Ma
si dà il caso che i turchi fossero musulmani, e dunque gli arabi
preferiscono non parlarne. Lo sviluppo della cultura araba si è
arrestato verso l’XI secolo, otto secoli prima della conquista da parte
occidentale. E quella stessa cultura araba era stata fondata sulla
conquista, sullo sterminio e/o sulla conversione più o meno forzata
delle popolazioni sottomesse. In Egitto, nel 550 d.C., non c’erano gli
arabi – non più che in Libia, in Algeria, in Marocco o in Iraq. Ciò
nonostante, non sento levarsi alcuna autocritica dagli ambienti
intellettuali arabi. Analogamente, si parla della tratta degli schiavi
da parte degli europei a partire dal XVI secolo, ma non si dice mai che
la tratta e la riduzione sistematica in schiavitù dei neri era stata
introdotta in Africa dai mercanti arabi a partire dall’XI-XII secolo,
con la complicità ovvia dei re e dei capi tribù locali. Non voglio certo
affermare che tutto questo cancelli i crimini commessi dall’Occidente;
dico soltanto che la specificità della cultura occidentale è la capacità
di mettersi in discussione e di autocriticarsi. Nella storia
occidentale, come in tutte le altre, ci sono atrocità e orrori, ma solo
l’Occidente è stata in grado di creare questa capacità di contestazione
interna, di messa in discussione delle proprie istituzioni e delle
proprie idee nel nome di un confronto ragionevole tra esseri umani –
confronto che resta aperto e che non conosce dogmi definitivi.
Cornélius Castoriadis
Mirabile
intervento che mette in risalto la grandezza e la miseria
dell'Occidente. La prima consiste nella dialettizzazione del suo
percorso diacronico, nel considerare cioè il divenire della storia come
un rimettersi continuamente in discussione, un processo eracliteo in
cui le contraddizioni emergono ma, hegelianamente, portano prima ad un
confronto e poi ad una sintesi. La seconda consiste nell'abbandono
degli imperativi categorici a favore di quelli ipotetici, e, per di più
nella totale inversione di tale processo, nella esaltazione cioè di
quell'imperativo ipotetico utilitarista che mette continuamente al
primo posto il vantaggio effimero, perché il profitto fine a se stesso
non è altro che questo. Senza il recupero dell'imperativo necessario
della prassi morale non ci può essere sintesi, perché non esiste
reciprocità e riconoscimento e così, anche la dialettica della storia
va incontro alla illusione di un eterno ritorno dell' effimero che
maschera la sua fine. Solo con la riscoperta di una ulteriore grandezza
e capacità di dialettizzare anche quello che sembra ormai il suo
orizzonte ultimo e che fa pensare al suo tramonto, l'Occidente potrà
superare l'inganno della sua fine autodistruttiva, rimettendo così in
discussione l'ineluttabilità della prospettiva neoliberista come
dimensione metafisica ed inequivocabile.
Carlo Felici
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