Garibaldi pioniere dell'Ecosocialismo

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Garibaldi, pioniere dell'Ecosocialismo (clickare sull'immagine)

venerdì 20 luglio 2012

Grandezza e miseria dell'Occidente

Contro l'irrazionalismo ed il fondamentalismo anti-occidentale dell'ala postmoderna della sinistra riporto un interessatissimo brano di una intervista a Cornelius Castoriadis, uno dei massimi filosofi francesi (di origine greca), esponente di quella cultura socialista e comunista libertaria che ebbe nella rivista "Socialisme ou Barbarie" la sua espressione, In Italia Riccardo Lombardi e Raniero Panzieri ne subirono l'influenza: "Cornélius Castoriadis".
  Giuseppe Giudice

Credo che i due termini che lei oppone siano alla fine uno solo. In buona parte, l’ideologia e la mistificazione decostruzionistiche fanno leva sul senso di colpa dell’Occidente; esse scaturiscono da un miscuglio illegittimo in cui la critica del razionalismo strumentale e strumentalizzato è surrettiziamente confusa con la denigrazione delle idee di verità, di autonomia, di responsabilità. Si fa leva sul senso di colpa dell’Occidente – responsabile del colonialismo, dello sterminio di altre culture, dei regimi totalitari – per arrivare a una critica, fallace e autoreferenzialmente contraddittoria, del progetto greco-occidentale di autonomia individuale e collettiva, delle aspirazioni all’emancipazione, delle istituzioni nelle quali queste ultime si sono, anche se in modo imperfetto, incarnate.


Da secoli, l’Occidente moderno è animato da due “significazioni immaginarie” sociali opposte, che pure si sono influenzate a vicenda: da un lato, il progetto di autonomia individuale e collettiva, la lotta per l’emancipazione intellettuale, spirituale e concreta nella realtà sociale dell’essere umano; e, dall’altro, il progetto capitalistico, demenziale, di un’espansione illimitata di uno pseudo-controllo pseudo-razionale che da molto tempo ha smesso di riguardare soltanto le forze produttive e l’economia per diventare un progetto globale (e dunque ancora più mostruoso) di controllo totale dei dati fisici, biologici, psichici, sociali, culturali. Il totalitarismo è solo la punta più estrema di questo progetto di dominio – che d’altronde contiene i germi della sua stessa contraddizione, perché anche la razionalità ristretta e strumentale del capitalismo classico diventa nel totalitarismo irrazionalità e assurdità, come stanno a dimostrare il nazismo e lo stalinismo.
Per tornare alla sua domanda, lei ha ragione nel dire che noi oggi non viviamo in una krisis nel vero senso del termine, cioè in un momento di “decisione” (negli scritti di Ippocrate, la krisis, la crisi di una malattia, è il momento parossistico in capo al quale il malato o muore o, grazie a una reazione provocata dalla crisi stessa, intraprende il cammino della guarigione). Noi viviamo una fase di decomposizione. In una crisi, ci sono elementi opposti che si combattono; invece, ciò che caratterizza la società contemporanea è la scomparsa del conflitto sociale e politico. La gente scopre ora quel che scrivevamo trenta o quarant’anni fa in Socialisme ou barbarie, cioè che l’opposizione destra/sinistra non ha più alcun senso: i partiti politici ufficiali dicono la stessa cosa. Non esistono programmi davvero opposti, né partecipazione della gente ai conflitti o alle battaglie politiche, o anche solo all’attività politica. Sul piano sociale, non c’è soltanto la burocratizzazione dei sindacati e la riduzione drastica del loro ruolo, ma la quasi scomparsa delle lotte sociali. Ma la decomposizione si vede soprattutto nella scomparsa dei significati, nell’evanescenza quasi totale dei valori. Ed è questa che, alla lunga, può minare la sopravvivenza del sistema stesso. Quando si proclama apertamente, come succede in tutte le società occidentali, che il solo valore sono i soldi, il profitto, che l’ideale sublime della vita sociale è l’arricchimento, è difficile pensare che una società possa continuare a funzionare e a riprodursi solo su questa base. Ma se così è, i funzionari dovrebbero chiedere e accettare mance per fare il loro lavoro, i giudici mettere all’asta le decisioni dei tribunali, gli insegnanti dare buoni voti agli alunni i cui genitori hanno firmato un lauto assegno, e via di seguito.

Già quindici anni fa scrivevo di questo: l’unica cosa che trattiene la gente dall’assumere questi comportamenti è la paura di una sanzione penale. Ma perché coloro che dovrebbero amministrare questa sanzione penale dovrebbero essere incorruttibili? Insomma, chi dovrebbe controllare i guardiani? La corruzione generalizzata che si osserva nel sistema politico-economico contemporaneo non è periferica o occasionale, è diventata un tratto strutturale e sistemico della società in cui viviamo. Arriviamo così a un fattore fondamentale che i grandi pensatori politici del passato conoscevano e che i cosiddetti “filosofi politici” di oggi – cattivi sociologi e peggiori teorici – ignorano alla grande: l’intima solidarietà tra un regime sociale e il tipo antropologico necessario per farlo funzionare. In gran parte, il capitalismo ha ereditato i tipi antropologici dei periodi storici precedenti: il giudice incorruttibile, il funzionario weberiano, l’insegnante dedito al suo compito, l’operaio per il quale il suo lavoro, nonostante tutto, è una ragione d’orgoglio. Personaggi del genere diventano inconcepibili nel mondo contemporaneo: non si vede perché dovrebbero essere prodotti, chi li produrrebbe e nel nome di che cosa funzionerebbero. Anche il tipo antropologico che è una creazione propria del capitalismo, l’imprenditore schumpeteriano – colui che combina inventività tecnica, capacità di riunire i capitali, di organizzare un’impresa, di esplorare, di penetrare, di creare i mercati – sta per scomparire. Per essere rimpiazzato da manager burocrati e da speculatori. Anche in questo caso, tutti i fattori cospirano.
La storia dell’Occidente è fatta di un’accumulazione di orrori – contro gli altri, ma anche contro se stesso. Ma questa non è una specialità dell’Occidente: che si tratti di Cina, di India, di Africa prima della colonizzazione o degli aztechi, l’accumulazione di orrori è ovunque. La storia dell’umanità non è la storia della lotta di classe, è la storia degli orrori, anche se non solo di quella. C’è, è vero, da risolvere il problema del totalitarismo: si tratta, come io penso, dell’ovvia conseguenza dell’eccesso di controllo all’interno di una cultura che era in grado di produrre strumenti di sterminio e di indottrinamento a un livello prima sconosciuto nella storia? Oppure di un destino perverso immanente alla modernità in quanto tale, con tutte le ambiguità di cui è portatrice? O, ancora, di altro? In questa nostra discussione, si tratta di un problema che oserei definire teorico, perché l’Occidente ha rivolto gli orrori del totalitarismo contro se stesso (ebrei compresi). Non è stato Lenin a dichiarare “sterminateli tutti, Dio riconoscerà i suoi”, ma un cristianissimo duca del XVI secolo; così come i sacrifici umani sono stati abbondantemente e regolarmente praticati nelle culture non europee. L’Iran di Khomeini non è un prodotto dell’Illuminismo.

Ma c’è un elemento che è specificamente occidentale e che possiamo definire il pesante privilegio dell’Occidente: la sequenza storicosociale che comincia con la Grecia e che viene ripresa, a partire dall’XI secolo, in Europa occidentale, è la sola e unica nella quale si veda emergere un progetto di libertà, di autonomia individuale e collettiva, di critica e di autocritica: la capacità di autodenuncia dell’Occidente ne è la conferma più evidente. In Occidente, siamo capaci (almeno una parte di noi) di denunciare il totalitarismo, il colonialismo, la tratta degli schiavi o lo sterminio degli Indiani d’America. Invece non ho mai sentito i discendenti degli aztechi, gli indù o i cinesi fare un’autocritica analoga, e ancora aspetto di sentire i giapponesi denunciare le atrocità da loro compiute durante la Seconda Guerra Mondiale.
Gli arabi denunciano continuamente la colonizzazione da parte degli europei, imputando ad essa tutti i mali di cui soffrono – miseria, mancanza di democrazia, mancato sviluppo della cultura araba, e così via. Ma la colonizzazione di alcuni paesi arabi è durata, nel peggiore dei casi, 130 anni: è il caso dell’Algeria, dal 1830 al 1962. Ma quegli stessi arabi sono stati ridotti in schiavitù e colonizzati dai turchi per cinque secoli. La dominazione turca nel Vicino e Medio Oriente inizia nel XV secolo e si conclude nel 1918. Ma si dà il caso che i turchi fossero musulmani, e dunque gli arabi preferiscono non parlarne. Lo sviluppo della cultura araba si è arrestato verso l’XI secolo, otto secoli prima della conquista da parte occidentale. E quella stessa cultura araba era stata fondata sulla conquista, sullo sterminio e/o sulla conversione più o meno forzata delle popolazioni sottomesse. In Egitto, nel 550 d.C., non c’erano gli arabi – non più che in Libia, in Algeria, in Marocco o in Iraq. Ciò nonostante, non sento levarsi alcuna autocritica dagli ambienti intellettuali arabi. Analogamente, si parla della tratta degli schiavi da parte degli europei a partire dal XVI secolo, ma non si dice mai che la tratta e la riduzione sistematica in schiavitù dei neri era stata introdotta in Africa dai mercanti arabi a partire dall’XI-XII secolo, con la complicità ovvia dei re e dei capi tribù locali. Non voglio certo affermare che tutto questo cancelli i crimini commessi dall’Occidente; dico soltanto che la specificità della cultura occidentale è la capacità di mettersi in discussione e di autocriticarsi. Nella storia occidentale, come in tutte le altre, ci sono atrocità e orrori, ma solo l’Occidente è stata in grado di creare questa capacità di contestazione interna, di messa in discussione delle proprie istituzioni e delle proprie idee nel nome di un confronto ragionevole tra esseri umani – confronto che resta aperto e che non conosce dogmi definitivi.
Cornélius Castoriadis
Mirabile intervento che mette in risalto la grandezza e la miseria dell'Occidente. La prima consiste nella dialettizzazione del suo percorso diacronico, nel considerare cioè il divenire della storia come un rimettersi continuamente in discussione, un processo eracliteo in cui le contraddizioni emergono ma, hegelianamente, portano prima ad un confronto e poi ad una sintesi. La seconda consiste nell'abbandono degli imperativi categorici a favore di quelli ipotetici, e, per di più nella totale inversione di tale processo, nella esaltazione cioè di quell'imperativo ipotetico utilitarista che mette continuamente al primo posto il vantaggio effimero, perché il profitto fine a se stesso non è altro che questo. Senza il recupero dell'imperativo necessario della prassi morale non ci può essere sintesi, perché non esiste reciprocità e riconoscimento e così, anche la dialettica della storia va incontro alla illusione di un eterno ritorno dell' effimero che maschera la sua fine. Solo con la riscoperta di una ulteriore grandezza e capacità di dialettizzare anche quello che sembra ormai il suo orizzonte ultimo e che fa pensare al suo tramonto, l'Occidente potrà superare l'inganno della sua fine autodistruttiva, rimettendo così in discussione l'ineluttabilità della prospettiva neoliberista come dimensione metafisica ed inequivocabile.
Carlo Felici

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