Garibaldi pioniere dell'Ecosocialismo

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domenica 22 luglio 2012

Il nuovo medio oriente, gli USA, la Siria, le rivolte arabe

di Manfredi Mangano
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Il compagno Giuseppe Angiuli ha scritto una interessante nota sulla strategia americana rispetto alla Siria e al progetto di Greater Middle East. Condivido diversi spunti, ma ci sono dei tasselli della ricostruzione che a mio avviso sono un pò forzati e risentono di una interpretazione a mio avviso eccessivamente determinista dell'analisi geopolitica.

Partiamo dall'idea delle Rivolte Arabe come un mero fenomeno di destabilizzazione:  "Mentre il progettato cambio di potere in Tunisia ed Egitto è stato (quasi) repentino e, tutto sommato, di facile realizzazione, per destabilizzare la Giamairiha libica di Gheddafi è stato necessario ricorrere ad intensi bombardamenti NATO".

In questa frase, si condensa a mio avviso un errore comune, nel campo "antimperialista", che tende a riabilitare in maniera postuma i nemici di turno degli Stati Uniti. E' successo con Saddam Hussein, grande protegè degli USA negli anni '80, massacratore di curdi, iraniani e comunisti, cliente d'oro dei mercanti d'armi occidentali, che iniziò la guerra in Kuwait non certo per spirito umanitario contro l'oppressione feudale, ma banalmente perchè pensava che  il prezzo di 10 anni di guerra contro l'Iran potesse ben essere un petroemirato da aggiungere alla sua satrapia.
E' almeno compensibile succeda con Gheddafi, che a fianco di rapporti poco chiari e di contiguità inquietanti col terrorismo e con alcuni despoti assortiti, almeno qualcosa per la causa dell'antimperialismo e del socialismo l'ha fatto, in Patria come all'estero.

E meno comprensibile che succeda, invece, con i regimi dell'RCD e del PDN, di Ben Alì e di Mubarak, inTunisia e Egitto.

Chiariamoci. Io sono molto lontano dalla retorica dell'interventismo dei diritti umani: la vedo un pò come Gerschenkron, con la sua dinamica dello sviluppo economico globale che porta a prediligere regimi autoritari nelle fasi in cui si rincorre lo sviluppo per concentrare le energie economiche. Al di là del tasso di adesione elettorale di un regime, che è comunque un tassello importante che non dovremmo dimenticare, cerco sempre di valutare le concrete dimensioni di un paese, le sue reali possibilità di esprimere una leadership in un senso o nell'altro, e in generale l'utilità o meno per il suo popolo del governo che si ritrova.

in questo contesto, RCD e PND non sono state sicuramente esperienza da buttare completamente via, per Tunisi e il Cairo, come non lo sarà Gheddafi per la Libia. Ma di sicuro, per tutti e tre i regimi, siamo di fronte a una ossificazione del potere. Tunisia e Egitto non potevano certo essere, oggi, inseriti nella categoria dei regimi progressisti: pur svolgendo il meritorio ruolo di garantire la laicità e la stabilità dello Stato di fronte alla minaccia del fondamentalismo islamico, entrambi svolgevano un ruolo di equilibrio e di copertura di interessi politici, economici e militari occidentali, garantendo l'ortodossia delle politiche economiche al Washington Consensus e l'apertura agli investitori in cambio della tolleranza americana per la sopravvivenza di nicchie di potere escluse dal mercato, ma legittimate a una spoliazione politica e clientelare delle risorse statali (l'esercito in Egitto, la famiglia presidenziale in Tunisia): a Mubarak e Ben Alì era poi concessa una nicchia di autonomia anche in politica estera, con un sostegno al comunque oramai molto moderato OLP che ne doveva garantire la credibilità verso le masse arabe nazionali e internazionali.

Di conseguenza, non era interesse americano o europeo assistere alla loro dipartita. Il supporto di fondazioni americane a gruppi pro-democrazia rientra nella medesima strategia per cui gli USA interloquivano a un tempo con la DC, Craxi, Edgardo Sogno, Marco Pannella e Giorgio Napolitano: è bene avere sempre un cavallo di riserva su cui puntare.

In quest'ottica, la comunità internazionale si è tovata di sicuro spaesata quando sono scoppiate rivolte che, ricordiamolo, non sono nate come "proteste arancioni" all'ucraina (e anche lì, comunque, bisogna distinguere tra Ucraina e altri paesi, come quelli dell'Asia Centrale, e anche evitare di semplificare troppo il problema ucraino), ma come classiche rivolte sociali a cui la presenza del Web e di un gran numero di giovani ha consentito nuove forme di organizzazione e coordinamento delle classiche forme di protesta (che sono sempre scioperi, picchetti, boicottaggi e assalti, ma ora organizzati in maniera più sicura e impreivedibile tramite i nuovi media).

Ricordiamoci che inizialmente l'ambasciata USA al Cairo non era affatto sicura di preferire i dimostranti all'esercito: Obama è intervenuto e ha fatto quello che suoi predecessori intelligenti hanno fatto con i regimi più impresentabili del blocco occidentale, dai colonnelli greci a Pinochet. Ossia, ha capito che il cavallo Mubarak oramai era bollito, e ne ha scelto uno nuovo. Questo ha permesso agli USA di riguadagnare un minimo di capitale politico nel mondo musulmano, anche sfruttando la popolarità personale di Obama.

In Libia, la dinamica si è rivelata diversa: a Bengasi c'è stata sicuramente una rivolta, ispirata dal successo delle vicine Tunisia e Egitto, contro il regime di Gheddafi. Non c'è bisogno di fare troppi sforzi di fantasia per immaginare che nella citta cirenaica, i tre principali attori politici (giovane borghesia nascente di sentimenti liberali, Fratelli Musulmani, indipendentisti) detestassero il Colonnello, il cui regime era sicuramente ammaccato ma non al livello terminale di consenso che caratterizzava invece i vicini. E' su questo corpo di rivoltosi, genuino anche se sicuamente moderato, filooccidentale e "borghese", che si è andata a saldare una dinamica "eterodiretta", ben chiarita da LIMES, in cui a Sarkozy, reduce dallo smacco tunisino dopo che una sua ministra si era offerta di inviare corpi speciali a difesa del regime, serviva un successo forte per rilanciare l'immagine e l'influenza francese nell'africa subsahariana e nel Mediterraneo. Ricordiamoci infatti che, oltre al progressivo indebolirsi della Francafrique grazie alla concorrenza cinese e al rinnovato interesse americano per l'Africa, il mandato di Sarkozy aveva visto il totale fallimento anche della politica mediterranea francese, dopo il veto della Merkel a formalizzare l'Unione del Mediterraneo. Sarkozy a quel punto ha agito sui legami economici e a cascata tribali di una serie di tecnocrati libici vicini all'Occidente per organizzare un vero e proprio tentativo di golpe politico-militare, da inserire nell'onda delle proteste: all'inizio si pensava che ne fosse parte Saif al Islam, ma la sua comparsa a fianco del padre ha fatto salire alla ribalta ... proprio gli assistenti di Saif come Jibril e Jallud, che ne avevano accompagnato lo sforzo riformatore e filooccidentale in questi anni !

D'intesa con la Gran Bretagna, che ha rapidamente anteposto i suoi interessi petroliferi ai buoni rapporti coltivati da Blair e dal Labour con Gheddafi durante la War on Terror, Sarkozy ha dunque sposato la causa interventista di Bernard Henry Levi, e su questa china ha trascinato anche attori come Obama, che durante tutta la campagna NATO ha cercato di tenersi defilato e, secondo Debka, stava patrocinando dei colloqui sulla transizione politica con Saif Al Islam a Biserta, in Tunisia, auspici la Russia e l'ex primo ministro francese De Villepin. Sarkozy ha trovato nel Qatar un alleato nuovo: più dinamico e meno sputtanato dell'Arabia Saudita, il monarca quatariota ha grossa influenza in Francia grazie allo shopping geopolitico del suo fondo sovrano, che a Parigi ha comprato di tutto, dalle squadre di calcio a partecipazioni nelle aziende strategiche. Sostenitoe dell'ala più modernista del wahabismo / salafismo, che è cosa diversa dai Fratelli Musulmani, l'emiro del Qatar ha cercato in questi mesi di accreditarsi come nuovo punto di riferimento del mondo arabo, è ed è stata la sua collaborazione anche militare oltre che finanziaria e di immagine a decidere la campagna di Tripoli.

In Siria, la dinamica è simile: il malcontento contro il regime di Assad è vivo. Lo è per motivi religiosi e etnici (preminenza degli alawiti, dei drusi e dei cristiani), economici (progressiva dimensione "di casta" degli alawiti nella burocrazia, appoggio della borghesia sunnita, processi di apertura economica all'occidente), politici (sostanziale impasse delle riforme politiche, politica laica del governo che scontenta i settori tradizionalisti della società, ruolo importante della corruzione e del familismo). Assad ha finora ottenuto un certo supporto, aperto o tacito, da una parte importante della popolazione: ma il fatto che i ribelli siano sponsorizzati dall'esterno, armati da regimi impresentabili più di quello siriano, autori della loro dose di atrocità, non azzera le responsabilità del regime nel precipitare la situazione, rispondendo violentemente alle prime proteste e continuando a commettere brutalità che sono connaturate alla guerra e inferiori rispetto ai conteggi della propaganda embedded, ma innegabili, nonostante le eroiche contorsioni di Marinella Correggia in alcuni suoi pezzi dove prevale lo schieramento ideologico alla correttezza dei fatti che ha cercato di seguire di fronte alla propaganda occidentale (caso chiaro il diniego ostinato sui video di torture effettuate da soldati siriani).

In quest'analisi dei fatti, la ricostruzione molto dettagliata della linea politica dei Neocons e del suo progressivo abbandono fatta da Giuseppe è certamente pregevole e reale, ma si inceppa a mio avviso di fronte a questo passo : "La nuova linea “realista” – elaborata dai due prefati strateghi - comporta la necessità per gli U.S.A. di abbandonare lo scenario della fantomatica “guerra al terrorismo islamico” ed anzi, di fare leva proprio sull’islam  radicale quale preziosa risorsa politica e quale fraterno  alleato da impiegare su larga scala come fattore di destabilizzazione in operazioni di “guerra sporca” o “coperta” (molto simile alla guerra a bassa intensità attuata dai contras  in Nicaragua)."

Masticando (non molto in verità, maun poco sì) la letteratura realista in oggetto, si tratta in realtà di un più pragmatico abbandono dei toni da crociata in favore di un understanding con l'Islam, con l'Europa e con la stessa Russia (quest'ultimo il meno praticato e col minor successo rispetto ai primi due), che si è fatta strada in una parte importante dell'establishment americano. Il sostegno a un "nuovo islam radicale" non è un fattore di destabilizzazione americano, a mio avviso, se non in maniera tangenziale (il caso di Belhaj  dei suoi ex quaedisti a me fa molto pensare a un accordo del tipo "tu smetti di lavorare con Bin Laden e combatti Gheddafi coi tuoi, avrai un pezzo della torta), ma è una precisa strategia di penetrazione politica che porta la firma di due attori: Arabia Saudita e Quatar. I fratelli musulmani si sono sicuramente imborghesiti, rispetto ai loro inizi "para-rivoluzionari", ma non sono il "cavallo vincente degli americani", quantomeno non sono un progetto da loro costruito a tavolino: come la DC da noi, sono l'attore più credibile con cui, seppur a malincuore, gli USA possono confrontarsi.

Non è quindi a mio avviso corretto parlare della loro ascesa come un fenomeno geopoliticamente eterodiretto: il loro consenso è reale, e le loro posizioni politiche non sono allineate a quelle occidentali su tanti temi. Tuttavia, è chiaro che di fronte alla sfida del potere cercheranno di avere un understanding col governo americano, anche per premunirsi da eventuali ritorni di fiamma militari.

Il vero dato da cui prendere spunto è purtroppo che il progetto politico di Nasser è oramai definitivamente morto: il panarabismo socialista è in disarmo, e la costruzione di una nuova sinistra araba (nonostante il buon risultato dell'Ettakatol tunisino, dei socialisti marocchini, di Al Karama in Egitto alle presidenziali) sarà ancora lunga. Oggi i fratelli musulmani esprimono le aspirazioni di un composito blocco sociale che spazia dalla media e piccola borghesia tradizionalista a classi popolari desiderose di un governo non corrotto. Stiamo attenti a non demonizzarli a priori, o a consegnarli integralmente a un campo (quello americano o peggio ancora quello delle petromonarchie) che non necessariamente li stima. Lo stesso vale per la Turchia, che ha cercato disvolgere un ruolo moderatore in Libia e che è stata a suo tempo grande sponsor di Assad, oltre a porsi oggi come punto di riferimento dei Fratelli Musulmani: la complessità delle lotte di potere tra islamisti conservatori e liberisti filoUSA e Erdogan e Davutoglu, che coltivano un progetto ottomanista e attento ai BRICS, non va sottovalutata.

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