Garibaldi pioniere dell'Ecosocialismo

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mercoledì 16 aprile 2014

LA DISCARICA DELLA NOSTRA INFERNALE ILLUSIONE

 
                                 

                                                di Carlo Felici 

Una delle metafore più potenti e significative del nostro tempo e della stessa identità di quella civiltà occidentale che oggi tende a globalizzarsi, è quella della discarica.
Essa trae fondamento non solo da una storia religiosa incline ad un monoteismo fattosi spesso instrumentum regni, fino a scoprirsi totalitario, ma dallo stesso principio logico di identità e di non contraddizione: A=A e dunque A non è, non può essere non A, B, C, D, e via dicendo. E’ un principio che, se osservato bene, è un po’ la chiave di volta di un procedere della storia umana, in cui si raggiunge la consapevolezza di sé solo scoprendo ed asserendo la diversità, e che assume poi connotati antropologici e persino etici nel suo coniugarsi con l’esistenza umana. Maschio è tale poiché diverso da femmina, libero da schiavo, ignorante da colto, fedele da infedele, ricco da povero e via dicendo…

Il principio di discriminazione è quello che però, isolando il termine di raffronto in se stesso, obnubila allo stesso tempo la consapevolezza dell’interdipendenza dei vari fattori che possono interagire tra loro e, proprio a causa della loro interazione, assumere connotati e significati volta per volta diversi, attraverso un principio di indeterminazione.
La scoperta dell’inferno è alla base di tale prospettiva discriminante con la quale ci si afferma solo negando l’altro, e quindi escludendolo invece di includerlo nel nostro orizzonte di cultura e perciò di consapevolezza esistenziale. L’inferno solo apparentemente è un’esigenza per una mente sensibile all’ordine cosmico, tale da imporre una discriminazione tra buoni e cattivi. Questo presupposto è infatti tipico degli orizzonti religiosi in cui prevalgono le divinità maschili: il Dio Padre giusto e giustiziere che mette ordine nell’universo, come in genere accade negli ordinamenti patriarcali e in quei percorsi religiosi che ancor oggi ne ricalcano le strutture ed i principi fondanti, più o meno alla lettera, fino al fondamentalismo, che trae proprio il suo “fondamento” da tale discriminante a priori.


L’immagine dell’inferno, come sappiamo, nella cultura giudaico cristiana è associata alla gheenna il cui significato originario è proprio quello riferito alla discarica: il luogo in cui bruciano i rifiuti, permanentemente, in quanto non si finisce mai di produrne.
Il rifiuto dunque, nel duplice significato di ciò che viene estromesso e al contempo di quel che si nega all’accettazione, è alla base del mito fondante di una giustizia che però appare al contempo assertoria ed esclusiva.
Tale principio però, crea evidentemente un problema logicamente insolubile: un Padre buono ed infinitamente inclusivo, non può essere contemporaneamente anche in maniera discriminante giusto e tanto meno permanentemente onnipotente e vittorioso su qualcosa o su qualcuno . Con i dannati, coloro che destina alla discarica, infatti, egli sostanzialmente perde la sua onnipotenza di assolutamente buono. A meno che non entri, come di fatto avviene nell’evolversi dei vari percorsi religiosi, il principio della misericordia. E dunque quel cassonetto, quella immensa discarica che tende ad espandersi all’infinito in modo direttamente proporzionale al fatto che la giustizia possa conservare il suo valore discriminante, senza esaurirlo mai del tutto, è pur tuttavia destinato a svuotarsi. Qui entra in gioco il principio Madre che tutto perdona e include e che nei tre grandi monoteismi è presente in maniera preponderante soprattutto nel Cristianesimo e trova come simbolo potentissimo la figura di Maria che intercede presso Dio e a cui sono rivolte le suppliche dei fedeli che invocano la salvezza. Lo è comunque anche se in modo più indeterminato, anche nell’Islam, dato che ogni versetto del Corano inizia nel nome di un Dio Compassionevole e Misericordioso o nell’Ebraismo, in cui la parola misericordia: rahamin, oltre ad avere un’assonanza con il termine arabo che ha lo stesso significato: compassionevole, Rahmani, ed è sempre associato ad Allah, significa, nello specifico, avere viscere di madre, possedere seni come una donna e commuoversi con lacrime di madre di fronte al male dell’altro. Solo quindi delle religioni e delle chiese ancora ostaggio del paradigma patriarcale possono professare l’idea di un inferno definitivo e dunque, la necessità di rappresentare tale incombenza con percorsi esistenziali di esclusione: da quella più blanda che riguarda la vita personale dei singoli, divorziati, risposati o conviventi, esclusi ad esempio dal percorso sacramentale, a quella, più feroce e distruttiva, della negazione della religione e dell’identità altrui, con la costruzione della tipologia dell’altro destinato, per essenza, alla discarica, all’inferno: l’infedele.

Nella specificità diacronica del pensiero cristiano, tuttavia, esistono figure di grandi mistici che hanno saputo superare tale dicotomia, ne cito una forse non molto nota ad un vasto pubblico: Giuliana di Norwich (1342-1412) che sperimentò la sua unione mistica con Dio murata in un cubicolo e che ci narra il suo percorso nel suo libro: Rivelazioni del Divino Amore; ecco un brano della sua ardita speculazione: “E’ necessario per noi cadere nel peccato. E al tempo stesso, è necessario che riconosciamo il peccato. Se non vi cadessimo, non sapremmo mai quanto, per la nostra stessa natura, siamo deboli e poveri. Non proveremmo mai neanche lo straordinario Amore del nostro Creatore. Per quanto pecchiamo, non usciamo mai dall’amore divino. Né siamo meno preziosi ai suoi occhi. Riconoscendo i nostri peccati, ci rendiamo conto del nostro avvilimento e abbiamo la possibilità di diventare umili. Grazie a ciò veniamo elevati al cielo. Grazie a ciò, veniamo elevati al cielo ad un’altezza che ci sarebbe impossibile raggiungere senza l’umiltà, frutto del riconoscimento del nostro peccato” In questo senso, il percorso di salvezza si rivela un vero e proprio attraversamento della discarica (dell’inferno) nel corso della nostra vita, fino a scoprire che essa stessa è necessaria, fa parte di noi e dunque, come tale, viene a perdere il suo significato di luogo deputato all’esclusione, di luogo della rimozione, perde l’intrinsecità del suo significato assoluto, non è più inferno in quanto tale.
Lo Stesso S. Paolo in maniera piuttosto lapidaria osserva: “Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza per avere con tutti misericordia” quasi notasse nel Logos incarnato un’astuzia della ragione connaturata alla sua sostanza.

Se dunque lo stesso Gesù, come ci appare nei Vangeli, ci mostra l’esistenza di una gheenna dove è “pianto e stridor di denti”, Egli lo fa tuttavia per evidenziare la stessa sua inconsistenza nella prospettiva di un Dio Padre Misericordioso, che è pronto ad accogliere per primi proprio coloro che a tale discarica di esclusione sono stati continuamente destinati dalle istituzioni religiose e dalla morale farisaica del suo tempo: lebbrosi, prostitute, ladri, gabellieri e via dicendo. Gesù viene a redimere tutti i mali, egli stesso “si fa” discarica, assume i peccati su di sé e li eleva fino a rivelarne l’inconsistenza nella prospettiva della buona novella.
Purtroppo le istituzioni religiose si sono rinnovate nel tempo e hanno saputo anche mimetizzarsi nelle nuove forme catechetiche di quei percorsi ideologici in cui la Ragione è stata divinizzata, oppure ridotta a sinonimo di un’astrazione politica, con l’aggravante che la predicazione dell’inferno e dell’esclusione è, in tali casi, stata sostituita dalla sua prassi istituzionale e dalla creazione di una vera e propria discarica, anche scientificamente programmata e messa in atto, per esseri umani in carne ed ossa: la ghigliottina, il gulag, il lagher, i campi di rieducazione, le prigioni dei torturatori e via dicendo.

Noi siamo esistenzialmente servi di questa forma distorta di educazione alla paura dell’inferno, così forte e violenta da generare un inferno che si espande in ogni angolo del pianeta e si globalizza; noi pensiamo che il consumo e la produzione siano la possibilità tecnica della costruzione del paradiso sulla terra e però, contemporaneamente, rappresentiamo tale imperium con la produzione indiscriminata di ogni tipo di rifiuto, avvelenando lo stesso paradiso che ci illudiamo di poter simultaneamente costruire: l'acqua, l'aria, la terra, persino il fuoco rendendolo radioattivo. Quindi proporzionalmente al dominio tecnico come religione della contemporaneità, si espande la discarica, l’inferno dei vivi, prima ancora che dei morti, tanto che in non poche aree periferiche rappresentate da periferie suburbane ma anche da stati ai margini del mercato globale, ormai anche degli esseri umani vi trovano stabile dimora. E’ una prospettiva che tende a fare anche dell’uomo in se stesso una sorta di materia prima da smontare, utilizzare e poi destinare alla discarica, persino con i bambini, se consideriamo l’espandersi del traffico dei loro organi.
Anche il riciclaggio non è che una componente di tale processo, poiché presuppone il riutilizzo delle scorie per la costruzione di sostanze che solo apparentemente vengono “salvate dal rifiuto” per essere, tuttavia, destinate ad un nuovo consumo e dunque alla produzione di altri rifiuti di altro genere. Noi viviamo dunque la necessità del rifiuto come consustanziale allo stesso progredire e alla crescita di tale modello di civiltà, che si fonda, come abbiamo già notato all’inizio, logicamente sull’imprescindibilità del rifiuto e del “rifiutare”, su una prospettiva cioè di esclusione, anche quando si accorge della opportunità dei “correttivi” dell’integrazione, dell’intercultura delle prospettive multietniche e interreligiose.
A tale necessità di crescita, è del tutto evidente che vengono sempre di più sacrificate le stesse politiche sociali, le leggi finanziarie, semplici varianti applicative per governi che non governano più veramente ma sostanzialmente obbediscono, improntate a tagli e sacrifici, specie quando si tratta di servizi rivolti al cittadino. Tanto più che la stessa politica degli stati si è ormai ridotta a notariato, a segreteria contabile del dominio del mercato e dei suoi tecnocrati, sacerdoti dell’ultimo dio tecnologico che ha i suoi templi nelle banche e negli istituti finanziari, in cui si costruisce l’inferno dei molti al servizio del paradiso dei pochi eletti depositari della tecnica e della ricchezza. Essi soli pretendono di essere coloro che decidono chi e come deve crescere e chi e come deve restare a sopravvivere prima di morire nella discarica, o di agonizzare solo in base a ciò che vi resta.

Portiamo così sempre con noi la necessità incombente di scatenare l’inferno, ovunque e comunque, ogni qual volta tale modello di civiltà è impedito ad affermarsi e ad espandersi, persino quando avvengono le sue convulsioni interne, con i conflitti di religione e quelli politici ed economici che ne conseguono: tutti figli o pronipoti dalla medesima radice discriminante. A non può essere non A. E in tal procedere la nostra malinconia e la nostra depressione, oltre che la nostra infelicità non possono che aumentare proporzionalmente al nostro isolamento, segnato dal nostro senso di appartenenza, per cui noi “siamo” solo se ci “includiamo” in un’ A di qualsivoglia genere o fattura: partito, famiglia, religione, cosca, modello culturale e via dicendo, lottando al tempo stesso contro altri non A che, però, hanno la nostra stessa percezione e pretesa di essere A differenziati da medesimi non A.

E’ un circolo infernale da cui non si può uscire se non morendo, ma prima che in senso fisico, in particolare, in senso logico e filosofico, oltre che religioso. E’ la morte di quell’io che, con la sua stessa tensione all’eterna beatitudine di un paradiso che vuole essere infinita propensione al diventare continuamente meglio di sé, nello spasmodico confronto con l’altro da sé, reca e costruisce, al contempo, una scia infernale e si tramuta nel peggiore dei demoni, prima che per gli altri, per se stesso.
Oltre quella morte, quell’abbandono del sé intrinseco, c’è l’eterna essenza di ciò che permane bello giusto e buono in se stesso, senza per questo doversi confrontare, e che perciò, in assenza di tale confronto, non ha nemmeno bisogno di esserlo e tanto meno di mostrarlo. C’è l’uomo o la donna senza maschere né pseudonimi, e la pura scoperta che tutto è esattamente oltre la finzione del pensiero, c’è quella sorpresa, quella pura meraviglia che non conosce mai la paura, ovunque si vada nel nostro continuo peregrinare.

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