Garibaldi pioniere dell'Ecosocialismo

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giovedì 23 luglio 2015

Il Vate Rivoluzionario

        

                
                                                  di Carlo Felici

"Ieri, come oggi, oggi come domani, quando la stirpe o l'uomo sta per diventare la ragione di vivere, insorgere è risorgere" G. D'Annunzio



Uno degli aspetti più sconosciuti e interessanti dell’opera di uno dei più grandi artisti e poeti italiani, è quello della sua vita rivoluzionaria, un vivere che, come lui scrisse, e ci possiamo davvero credere, fu “chiamato inimitabile”
Sino ad ora, l’aspetto della vita di D’Annunzio, dedito alla causa rivoluzionaria, era stato esplorato solo in parte da De Felice, con alcuni testi in merito alle esperienze del poeta nella Repubblica del Carnaro, oggi abbiamo invece uno studio più approfondito che è il frutto di una bella ricerca svolta da Antonio Alosco, il quale ha pubblicato di recente un libro dal titolo: Gabriele D’Annunzio socialista, oltre ad una bella raccolta di suoi scritti rivoluzionari curata da Emiliano Cannone, dal titolo “manuale del rivoluzionario”. Diciamo subito che è un titolo alquanto azzardato, dato che, strictu sensu, il Vate, socialista, non lo fu mai, almeno nell’accezione ordinaria del termine che possiamo riferire alla militanza in un partito e, in particolare, alla adeguazione della propria prassi verso le sue gerarchie interne.
Fu però autenticamente rivoluzionario e vedremo perché. D’Annunzio adeguò il mondo in cui visse, in maniera mirabilmente cosmica e storica, a se stesso, pur imprimendo alla sua epoca una sua personalissima, originalissima e vitalissima impronta caratteriale, artistica e anche politica.
La sua esperienza con la sinistra storica di fine Ottocento inziò nel 1897 nelle file della destra, ma con intenti tutt’altro che conservatori, il suo, infatti, fu solo un voler portare in Parlamento “la causa dell’intelligenza contro i barbari”, lo disse testualmente: “dopo il guerriero, dopo il sacerdote, dopo il mercante, venga colui che pensa”, fu quindi forse il primo ad inventare in Italia il ruolo dell’intellettuale impegnato, organico, in un’ epoca, per altro, non esente da corruttele e trasformismi, purtroppo mali endemici del nostro paese.
Fu presente nelle file della destra, ma non pronunciò mai alcun discorso, stette lì solo in veste di osservatore, fino all’avvento al potere del generale Pelloux e al varo di una serie di leggi liberticide che seguirono ai moti di piazza e alla strage di Milano del 1898.

Fu allora che il Vate, in un moto di stizza e di spirito autenticamente libertario, decise di agire, il 23 marzo del 1900, passando all’estrema sinistra, con un famoso discorso che, in sintesi, suona così: “io so che da una parte vi sono i morti che urlano, e dall’altra pochi uomini vivi ed eloquenti. Come uomo di intelletto, vado verso la vita”. La sua, di conseguenza, non fu tanto una decisione in senso politico, ma soprattutto una scelta esistenziale che lo portò a votare importanti provvedimenti, tra quali alcuni in favore della scuola pubblica e rigorosamente laica. Si ricandidò poi nel collegio di Firenze, ma non ebbe successo, ciò nonostante si impegnò per favorire la vittoria delle candidature legate al suo schieramento, pur sostenendo apertamente di non essere socialista, nel senso dell’appartenenza ad uno specifico partito: “Sono e rimango individualista, ad oltranza, individualista feroce..” e sottolineando, con un certo disincanto, consapevole del fatto che nel nostro paese spesso e volentieri le ideologie sono solo coperture di meschini interessi personali o di consorteria, che “il socialismo in Italia è una assurdità. “Da noi non c’è più altra possibile politica che quella di distruggere. Tutto ciò che adesso esiste è nulla, è marciume”..come dargli torto più di cento anni dopo, quando il marciume ormai governa indisturbato solo se stesso? “Un giorno scenderò per strada” disse esplicitamente e fu proprio allora, bisogna dire, che nacque la sua consapevolezza che l’intellettuale artista non poteva più essere solo un testimone, ma doveva necessariamente passare all’azione e diventare un esempio vivente.

Qui nasce la sua coscienza rivoluzionaria, spinta sin verso l’eversione. Bissolati lo sostenne, e con lui il giornale socialista l’Avanti, per svariati anni, quelli in cui iniziò il XX secolo, e il suo libro il Fuoco venne addirittura presentato con un articolo in prima pagina, cosa mai accaduta in un giornale politico, con parole molto lusinghiere: “noi dobbiamo rallegrarci di udirlo parlare così, e notare nel libro del Fuoco, i segni di quella sua bella evoluzione politica compiutasi in questi giorni tra lo sbigottimento dei “morti” e la meraviglia dei “vivi” Una splendida presentazione della sua Canzone di Garibaldi, venne scritta, sempre sullo stesso giornale, da uno dei filologi più illustri dell’epoca: Gustavo Balzamo-Crivelli con parole decisamente altisonati: “E l’epopea della Camicia Rossa non vuole altre storie che questa, intessuta nel ricordo non oblioso del popolo, in cui la fiamma dell’ideale mai non si estingue. Gabriele d’Annunzio illuminò di questa fiamma in un riflesso di incendio la sua poesia” D’Annunzio utilizzò il partito socialista per diffondere il suo scritto in tutta Italia (lo recitava egli stesso) e il Partito Socialista si servì del poeta per farsi propaganda per un bel periodo. Lo stesso partito avrebbe presentato volentieri di nuovo la candidatura del Vate nelle successive elezioni, tanto che, pur essendo allora favorevole ad abolire il Senato, che era di nomina regia, quando si discusse della nomina di D’Annunzio, esso la sostenne, anche se poi non ebbe luogo.

Furono i repubblicani e i radicali, più organizzati allora territorialmente, a porre il loro veto su ulteriori candidature di D’Annunzio sostenute dai socialisti, e il poeta se ne ebbe tanto a male che, da allora in poi, rifiutò l’impegno parlamentare, pur contribuendo, con le sue conferenze ed i suoi incontri, a sovvenzionare notevolmente gli introiti delle Camere del Lavoro. Si fece persino promotore della costruzione di alcune di esse, e, in occasione della inaugurazione di una, disse testualmente: “Io spero prossimamente di potere entrare, non indegno, come poeta, alla Casa che voi edificherete con pietre armoniose” Inaugurò i corsi dell’Università popolare di Milano facendosi apologeta di una nuova missione educatrice dell’arte verso il popolo, non più suggestionato dal fatto che l’arte dovessere restare un patrimonio di eletti: “Si riconosce che conviene distruggere il pregiudizio che oggi separa gli artisti dalla folla e restringe con un ingiusto privilegio il numero delle arti…i più umili mestieri, esercitati con animo libero, possono assumere nobiltà di arte, come ogni cosa o creatura può diventar bella, così ogni lavoro può divenire un’arte.

Tutte le attività umane debbono essere glorificate. Se tutte, oggi, non ci appaiono degne di gloria, questo accade o per ingiustizia o per una servitù che lo opprime..la mano che impasta il pane è nobile come quella dello statuario” Il periodo di stretta collaborazione tra D’Annunzio e i socialisti non fu dunque né breve e nemmeno effimero, ma durò svariati anni, almeno fino al 1906, in particolare durante la direzione de l’Avanti di Bissolati. Furono le successive vicende coloniali italiane che portarono alla divaricazione di percorso tra i socialisti e il Vate, soprattutto perché egli se ne fece sostenitore, con spirito più che nazionalistico , patriottico, quello cioè di una grande Patria popolare che si metteva in moto senza chinare la testa di fronte ad altre potenze le quali, se fosse rimasta a guardare, l’avrebbero schiacciata in un ruolo succube nel Mediterraneo. Questo mito della “grande proletaria”, lo accompagnò fino all’ultima impresa coloniale italiana in Etiopia.

Da sottolineare il fatto che tale mito non fu solo suo, ma anche di alcuni socialisti come Labriola, il quale però si spense agli inizi del secolo XX. Fu comunque la Grande Guerra a sancire lo iato profondo con il partito socialista, e come sappiamo, egli fu l’unico a distaccarsi, dato che portò anche Mussolini ad essere espulso dal suo partito. D’Annunzio partì infatti come volontario, a ben 52 anni, guadagnandosi sul campo i gradi di tenente colonnello e soprattutto con una gloriosa nomea, da allora fu infatti, “il Comandante” per antonomasia, per tutti coloro che, dalla guerra, si attendevano un inevitabile sbocco rivoluzionario. Nella guerra scoprì il cameratismo, la condivisione, la stretta interdipendenza con un popolo che lottava per essere protagonista della sua storia, l’essere uniti, e, di conseguenza, che la vita, come creazione artistica, non doveva essere solo quella di un singolo ma quella dello stesso popolo con cui si vive e si muore: “D’un solo cuore, d’un solo fegato, d’un solo patto, con me, come quando voi fate la catena per gettare al sole e alle stelle le vostre canzoni vermiglie, con me, compagni, con me compagno, fedeli a me fedele, ejia ejia eija Alala!” L’esito rivoluzionario arrivò finalmente con l’impresa di Fiume, che solo un disattento quanto superficiale lettore della storia potrebbe tuttora considerare un’impresa nazionalista o dalle caratteristiche coreografiche e confusionarie.

Questa mistificazione, che è nata subito dopo sin dai tempi del fascismo, e in certi casi tuttora perdura, è sorta con il preciso scopo di depotenziare un evento che sicuramente, se avesse avuto successo, avrebbe cambiato profondamente la natura del tessuto istituzionale italiano, e il futuro di una Patria più libera e consapevole. Fiume segnò sia il distacco definitivo di D’Annunzio dal Partito Socialista e, in particolare dalla sua direzione che passò nelle mani di Serrati, sia però anche il suo riavvicinamento all’ala più radicale del sindacalismo rivoluzionario.

L’Avanti fu allora diretto da Serrati e rivolse duri attacchi verso D’Annunzio e contro la sua impresa, qualificando il Vate come “rappresentante della piccola borghesia italiana” o della “striminzita speculazione patriottica nostrana”, denigrando così una vicenda che largo clamore stava avendo presso l’opinione pubblica e, al contempo, facendo da sponda alla reazione nazionalista che avrebbe voluto metterla a tacere in nome di interessi diplomatici. Il commento più benevolo dei socialisti di allora fu di considerarla un “gesto donchisciottesco”, ma vedremo bene che, concretamente, fu molto più donchisciottesco il tentativo generalizzato di occupare le fabbriche e di operare una rivoluzione sindacale con un biennio che fu rosso solo di rabbia e di rancore, ma mai di vera capacità rivoluzionaria. Tanto che, quando da Fiume D’Annunzio offrì agli operai in lotta che occupavano le fabbriche le armi per potere portare a vero compimento una concreta ed autentica rivoluzione, egli si vide rispondere no, a dimostrazione che quel biennio, in definitiva, ebbe solo scopi corporativi e salariali, destinati ad essere ridimensionati nel gioco collateralista del riformismo più o meno mascherato, ad oltranza.
Fu lo stesso Lenin a lodare D’Annunzio (“In Italia c’è un solo rivoluzionario: Gabriele D’Annunzio”) e a biasimare Serrati e i socialisti di allora. A sostenere l’impresa rivoluzionaria di Fiume fu invece Ricciotti Garibaldi che disse espressamente che essa si poneva in diretta continuità con le imprese risorgimentali garibaldine, non solo per il suo spirito patriottico, ma anche per la sua carica di innovazione sociale. Oltre al contributo delle migliori avanguardie artistiche di allora, ad animare di grande creatività e di spirito autenticamente rivoluzionario quella stagione, ci fu l’apporto di sindacalisti come De Ambris, che scrisse insieme a D’Annunzio la Carta del Carnaro. Persino un giovane di allora: Leo Valiani, che era nato a Fiume ed abitava di fronte al palazzo di governo, ricorda D’Annunzio come “oratore eccezionale e forse ancora più seducente come attore. Mi affascinava soprattutto il suo appello ad una rivoluzione di libertà”.

La Carta del Carnaro che scaturì dalla collaborazione tra De Ambris e D’Annunzio ma non fu, come molti erroneamente credono, solo la stesura in bella copia ed in stile dannunziano delle idee di De Ambris, rappresenta piuttosto la traduzione in una lingua ed in una sensibilità libertaria di principi ed idee di eguaglianza e di dignità sociale che già da tempo andavano maturando nel pensiero più fruttuoso del sindacalismo rivoluzionario di personaggi che, come Corridoni, non si appiattirono nel neutralismo socialista, ma vollero fare del loro interventismo, il preludio per una autentica stagione rivoluzionaria in Italia. Per i socialisti di allora, però, lo Statuto “non pratico, non applicabile, non fu serio”, dissero “è frutto di un lavoro scolastico di un poeta. E’ anacronistico, pletorico e grottesco”, quasi fosse un malcelato disegno dittatoriale di un solo personaggio in cerca di gloria. Ed è particolarmente sintomatico il fatto che, mutatis mutandis, tale giudizio storico abbia accompagnato in senso trasversale ed a lungo tale esperienza, con l’unico scopo di gettarvi discedito e di depotenziarla. Lo stesso sindacalista collaboratore di D’Annunzio venne denigrato bollandolo come “vicedio”.

De Ambris e i volontari fiumani vennero definiti “quei parassiti che si chiamano legionari” E’ importante sottolineare ciò, per capire il profondo rancore che quei legionari, in gran parte reduci ed Arditi, cresciuti nelle maggiori e più rischiose difficoltà del conflitto, maturarono dopo la sconfitta a suon di cannonate dell’esperimento rivoluzionario fiumano, confluendo poi sia nelle file fasciste che in quelle antifasciste: gli Arditi del Popolo, e portandosi dietro una carica notevole di rabbia e di violenza. E’ bene ribadirlo con chiarezza: quella rivoluzione era destinata ad estendersi a tutta l’Italia portando ad un ribaltamento dei suoi assetti istituzionali, sulla scia delle idee repubblicane e garibaldine che tanto avevano dato alla storia risorgimentale e tanto erano state frustrate dall’avvento della dinastia dei Savoia come monarchia nazionale, frustrazione e risentimento maturati anche da D’Annunzio già dai tempi delle cannonate di Bava Beccaris.

La Carta del Carnaro aveva e conserva principi avanzatissimi, come la prorietà concepita nella sua funzione sociale e non speculativa, la corporazione come sinergia di forze produttive, la concezione del lavoro operaio come frutto di produttori attivi e non come soggetti alienati passivi, la libertà di religione e dalla religione, la revocabilità delle cariche pubbliche, la parità dei diritti tra uomo e donna, con quell’emancipazione femminile che rese proprio le donne le maggiori protagoniste della rivoluzione fiumana, la promozione di una Lega di Fiume dei popoli oppressi, che possiamo considerare l’antenata dei movimenti no global, e destinata a dar voce a «tutti quei popoli che oggi patiscono l’oppressione e che vedono atrocemente mutilate le fibre viventi dei loro territori nazionali, e che guardano al vessillo di Fiume come al segno della rivolta e della libertà», e infine il decentramento amministrativo e la revisione periodica della Costituzione per renderla sempre più adeguata alle sfide del tempo, pur senza farla rinunciare ai suoi principi basilari. Sono questi caratteri indelebili di attualità che dovrebbero farci ben riflettere, non solo sulla concretezza di quell’epoca e di quel tentativo, forse paragonabile solo a quello della Costituzione della Repubblica Romana del 1849, ma ancor di più su quelli odierni di rinnovamento istituzionale che sovente restano prigionieri di logiche politiche autoreferenziali di basso e persino infimo cabotaggio.

E’ stato un illustre esperto di Diritto Costituzionale come Gaspare Ambrosini, presidente della Corte tra il 1962 e il 1967, a dichiarare che “Quell’ordinamento che filosofi, economisti e giuristi non avevano creato, doveva essere creato da Gabriele D’Annunzio, la cui Carta di Libertà del Carnaro, quantunque non entrata in attuazione, resta nella scienza come il modello più insigne di completo ordinamento sindacale finora escogitato” Per questa sua rivoluzione che avrebbe dovuto essere anche quella di tutti noi, il Vate cercò la collaborazione non solo di reparti dell’esercito, ma anche di Mussolini e di Serrati da lui definito “rivoluzionario da temperino”, perché, animato da velleità bolsceviche, ma immobilizzato da una inazione che concretamente si manifestava collaterale allo stesso sistema da lui contestato.
Purtroppo non si seppe e non si volle cogliere il momento favorevole e non lo colse in particolare né Serrati a cui pure D’Annunzio si era appellato né Mussolini che temeva che l’esercito restasse fedele alla monarchia e che l’azione non potesse estendersi oltre la Venezia Giulia. Questa fu la sua giustificazione, in realtà il futuro duce temeva che Il Vate lo surclassasse, e lo temette fino alla marcia su Roma, anche se D’Annunzio capì, dopo essere stato lasciato solo, e preso a cannonate dal “ministro della malavita” diventato capo del governo: Giolitti, che la sua rivoluzione era stata rinnegata. Serrati e Mussolini furono accomunati dalla loro codardia in questa vicenda, nessuno dei due era mai stato uno che, come D’Annunzio, avesse messo a repentaglio la propria vita in guerra.
Mussolini era stato ferito in una esercitazione e approfittò delle ferite per non tornare più al fronte. D’Annunzio vi tornò anche orbo di un occhio e fino alla fine..usque ad finem! Lapidario il giudizio di Ivanoe Bonomi: “D’Annunzio non si mosse da Fiume e il socialismo bolscevico, odiatore di ogni cosa che avesse il suggello della guerra, continuò stupidamente ad ingiuriare gli ufficiali, a inscenare scioperi, a commettere violenze senza senso, così lo Stato potè sfuggire il suo pericolo più mortale”. Non meno caustico verso i serratiani è stato De Felice, il quale sottolinea “l’incapacità dei socialisti a superare sterili posizioni negative” Lusinghiero, su quell’impresa rivoluzionaria fiumana, resta invece il giudizio di Vittorio Foa, antifascista, uno dei padri nobili della Sinistra italiana condannato a 15 anni dal regime fascista: “L’impresa di D’Annunzio fu un intreccio di componenti culturali, fu un gioioso appello contro ogni conformismo diplomatico e burocratico.

Si inseriva in qualche modo nella tradizione garibaldina del fatto compiuto che facilita l’azione diplomatica. Ma anche per la durata dell’occupazione, fu un colpo mortale all’autorità dello Stato”. Così, da allora, il Vate preferì l’esilio volontario nel Vittoriale, respingendo persino personaggi come Gramsci e Bordiga che guardavano a lui dopo la scissione e la creazione del partito comunista, come il principale referente di un progetto rivoluzionario, ormai però fuori tempo massimo (ricordiamo che lo stesso D’Annunzio si definì comunista senza dittatura) Le rivoluzioni, infatti, hanno bisogno di tempismo e del contributo essenziale di un popolo in armi, specialmente di quello che già le usa nell’esercito. Per questo eliminare la leva obbligatoria vuol dire sottrarre al popolo la stessa tutela della sua sovranità.
D’Annunzio si sa, finì osannato e “imbalsamato” dal regime in una “prigione doratissima”, in cui però non smise di agire, in maniera più criptica, appoggiando l’unità sindacale e le forze più socialmente avanzate anche durante gli anni della dittatura, così come fu sempre fautore di un patrottismo che fosse il linea con i principi di quella che veniva considerata la “grande proletaria”, la quale, d’altro canto, sappiamo bene che si impose nelle colonie anche con i gas e i campi di concentramento. Non sappiamo se egli morì di emorragia cerebrale, come tuttora recita il referto medico, oppure se fu avvelenato da chi passò poi al servizio dei nazisti, o persino se si suicidò, consapevole di non meritare una lenta agonia nel decadimento psicofisico, sappiamo però che, fino all’ultimo, cercò di dissuadere Mussolini dal perseverare in un’alleanza che già lui aveva visto profeticamente come rovinosa, quella con colui che egli definiva in modo sprezzante: “L’Attila imbianchino”.

Fatto sta che la sua morte, il primo di marzo del 1938, gli risparmiò sia lo scempio di una alleanza antistorica e criminale sia la demenza delle leggi razziali sia infine la tragedia di una sconfitta e di una guerra civile che ebbe nella città di Fiume proprio la sua vittima sacrificale più illustre. La sua morte, non a caso, segna la fine di una Italia indipendente, anche perché lui stesso aveva inteso identificare la sua vita, non solo con quella di una straordinaria vocazione artistica, ma anche con quella di un popolo e di una Patria, non isolati in un arrogante disprezzo imperialista, ma in piedi, come grande esempio per le altre destinate ad emanciparsi. Le sue ultime parole, mentre i suoi legionari cercavano di respingere un esercito ben più numeroso ed armato e lui decise di cedere le armi per risparmiare alla città le rovine di un perdurante e tragico bombardamento, restano emblematiche della sua vocazione e del suo Amore rivoluzionario a tutto campo, a tutto tondo.
Quello stesso Amore che lo portò a corrispondere nelle parole e nei fatti che: “Io ho quel che ho donato”.
Ed è vero, tutto ciò che gli apparteneva era ed è tuttora dello Stato “Se voi mi amate, se io son degno del vostro amore, quella Fiume voi dovrete preservare contro ogni sopraffazione, contro ogni insidia, contro ogni vendetta. Per Fiume bella, per Fiume sana e forte: ejia, ejia, ejia, alalà! Viva l’Amore. Alalà!!”
Fiume rappresenta lo spartiacque della guerra civile italiana, perché da allora chi tornò da quella mancata rivoluzione, non fu più lo stesso, segnato una esperienza indelebile ed intensa forse più della guerra stessa. Fiume divenne un luogo dell’anima e lo scontro tra soldati italiani, per la prima volta nella storia del nostro Paese, spaccò irreparabilmente il nostro popolo. 

Bibliografia essenziale: 
Arditi e Legionari Dannunziani di Ferdinando Cordova. Vittorio Martinelli: La Guerra di D'Annunzio. Antonio Alosco: D'Annunzio socialista. Gabriele D'Annunzio manuale del rivoluzionario a cura di Emiliano Cannone, Gabriele D'Annunzio, la penultima Ventura a cura di Renzo De Felice, Renzo De Felice: D'Annunzio Politico Renzo De Felice: La carta del carnaro tra D'Annunzio e De Ambris. Ferdinando Gerra: L'impresa di Fiume Claudia Salaris: Alla festa della Rivoluzione Annamaria Andreoli: il vivere inimitabile.



venerdì 17 luglio 2015

Grecia: la dignità ha battuto l’avidità



Leonardo Boff *
 
 Ci sono momenti nella vita di un popolo in cui si deve dire di no, al di là delle possibili conseguenze. Si tratta della dignità, della sovranità popolare, della democrazia reale e del tipo di vita che si desidera per l'intera popolazione.
 Cinque anni fa la Grecia è piombata in una terribile crisi economica e finanziaria, soggetta a ogni sorta di sfruttamento, ricatto e anche di terrorismo da parte del sistema finanziario, in particolare  quello di origine tedesca e francese.  Si è verificato un vero e proprio intervento nella sovranità nazionale, imponendo a titolo definitivo misure di austerità estreme, elaborate senza consultare nessuno dalla Troika (Banca centrale europea, Commissione europea e Fondo monetario internazionale).
         Tali misure prevedevano una tragedia sociale,  di fronte alla quale il sistema finanziario non ha mostrato alcun senso di umanità. "Salva il denaro, soffra o muoia il popolo". Infatti dall'inizio della crisi ci sono stati più di diecimila suicidi di piccoli commercianti insolventi, centinaia di bambini lasciati alle porte dei monasteri con una nota di madri disperate: "Non lasciare mio figlio morire di fame." Una persona su quattro è disoccupata, più della metà dei giovani senza lavoro pagato e il PIL è diminuito del 27%. Non passa per la testa degli speculatori che dietro la statistica si nasconde  un calvario di sofferenza di milioni di persone e l'umiliazione di un intero popolo. Il loro motto è "l'avidità è buona". Non c'è niente altro. 

Ci ha lasciato l'amico che ha sempre atteso l'avvento di Dio


 

Leonardo Boff *

Ha fatto tutto nella sua vita. In gioventù fu ateo e marxista. Ma all'improvviso si convertì. Fu ordinato durante la guerra. Entrò nella Resistenza contro i nazisti. Nel 1949 venne nominato consigliere per la Gioventù di Azione Cattolica. Ma i suoi metodi libertari non piacquero allo status quo ecclesiastico e venne inviato ad accompagnare gli emigranti italiani che partivano in nave per l’Argentina. Durante il viaggio incontrò un Piccolo Fratello di Gesù, seguace di Charles de Foucault, il cui carisma è quello di vivere tra i più poveri nel mondo. Diventato anche lui Piccolo Fratello, iniziò la sua esperienza in Algeria nei pressi del deserto e all’interno della lotta di liberazione contro la dominazione francese. Poi fu mandato in Argentina. Lavorò per anni come operaio con i taglialegna. Fu nel Cile di Pinochet, ma il suo nome entrò presto nella lista che diceva: “Chiunque trovi una di queste persone, può eliminarla". Trascorse un periodo in Venezuela. Alla fine si stabilì in Brasile, a Foz do Iguaçu, dove ha creato una serie di iniziative per i poveri, come la raccolta di erbe medicinali, una fattoria didattica per i giovani senza tetto e altre organizzazioni popolari che continuano ad esistere oggi.
   Ebbe molti premi che rifiutava quasi sempre. Il più importante fu il 29 Novembre 1999 a Brasilia, quando l'ambasciatore israeliano gli conferì la più alta onorificenza data a un non-Ebreo, "Giusto tra le Nazioni". Durante la guerra aveva creato con altri una rete sotterranea che aveva salvato 800 ebrei.
Divenne monaco senza abbandonare il mondo, ma sempre all'interno del mondo dei poveri e umiliati. Tutto il tempo libero lo dedicava alla preghiera e alla meditazione. Durante il giorno recitava mantra e giaculatorie. Fu una delle figure di maggior rilievo che hanno attraversato la mia vita, con una capacità di parola in grado di resuscitare i morti. Eravamo amici-fratelli. 

mercoledì 8 luglio 2015

FRANCESCO: Chiesa in uscita. Da dove, per dove?



                                        Leonardo Boff *

Mentre ancora celebriamo la straordinaria enciclica su «La cura della Casa
Comune», torniamo a riflettere su una prospettiva importante di Papa
Francesco, il vero logotipo della sua comprensione della Chiesa: "Una
Chiesa in uscita". Questa formulazione racchiude una velata critica
al modello anteriore di Chiesa che era una Chiesa "senza uscita"
a causa di diversi scandali di ordine morale e finanziario, che avevano
forzato papa Benedetto XVI a rinunciare, una Chiesa che aveva perso il suo
capitale più importante: la moralità e la credibilità dei cristiani e del
mondo secolare.

Ma il logotipo "Chiesa in uscita" possiede un significato più
profondo, diventato possibile perché pensato da un papa che non veniva dai
quadri istituzionali della vecchia e stanca cristianità europea. Questa
aveva fasciato la Chiesa dentro a una comprensione che la rendeva
praticamente inaccettabile ai moderni, ostaggio di tradizioni fossilizzate
e con un messaggio che non affrontava i problemi dei cristiani e del mondo
attuale. La "Chiesa in uscita" vuole segnare una rottura con
quello stato di cose. Questa parola "rottura" irrita i
rappresentanti dell'establishment ecclesiastico. Ma non è per questo
che smette di essere vera. E dunque si pone la domanda:
"Uscita": da dove, per dove? Vediamo alcuni passi:

Ecosocialismo, un progetto promettente


di Leonardo Boff, teologo e filosofo
Tra le molte parole del linguaggio politico, una delle più fraintese è senza dubbio la parola "socialismo". Chiaro, il perché. Si affaccia alla storia come progetto alternativo alla perversità del capitalismo inteso sia come modo di produzione sia come cultura globalizzata, ostile alla vita e incapace di massimizzare la felicità.
Si obietta che il socialismo ha fallito in tutti i paesi del mondo. Una delle ragioni per mantenere l'embargo a Cuba socialista, per tanti anni da parte degli Stati Uniti d'America, si deve forse alla volontà di mostrare al mondo che il socialismo è realmente disutile e non deve essere cercato come forma di organizzazione della società. Obama ha dovuto riconoscere che in questo gli Stati Uniti d'America hanno fatto fiasco. Il capitalismo non è l’unica forma di organizzazione della produzione e della società. Inoltre abbiamo assistito all'implosione del socialismo reale esistente nell’URSS, il che ha prodotto un entusiasmo quasi infantile tra i cultori dell’ideale capitalistico, promosso trionfatore e vera soluzione finale dei problemi sociali.
Ma siamo obbligati a riconoscere che quel "socialismo" non è mai arrivato ad essere il socialismo pensato dai suoi teorici tre secoli or sono. In verità, si trattava di un capitalismo di Stato autoritario: il solo che poteva accumulare ricchezza e realizzare il progetto socialista attraverso i membri del partito escludendo la società civile.