Garibaldi pioniere dell'Ecosocialismo

Garibaldi pioniere dell'Ecosocialismo
Garibaldi, pioniere dell'Ecosocialismo (clickare sull'immagine)

sabato 26 novembre 2016

Adios, Fidel!





                                                
                                                           di Carlo Felici



Saranno gli storici a fare i necrologi e ad analizzare in maniera documentata e dettagliata i meriti ed i demeriti di Fidel Castro, però qualcosa possiamo dirlo fin da ora, senza tema di tante smentite, ma semplicemente lasciando parlare i fatti.
Da oggi, la sua vita appartiene alla storia, a quella che ci auguriamo che, anche se priva di tanti validi scolari, resti ancora magistra vitae.
Benestante e facoltoso, scelse la via rivoluzionaria, con spirito gesuita, e coerente rispetto all’Ordine presso il quale aveva studiato: obbedienza assoluta, disciplina e forte innovazione sociale.
Il suo successo fu dovuto anche alla dabbenaggine di Batista che lo graziò e gli consentì di fuggire in Messico, riorganizzando le fila della rivoluzione.
Una rivoluzione che sarebbe morta sul nascere, dato che, dopo lo sbarco a Cuba, restarono in vita su più di 80 militanti rivoluzionari, solo 12, se non ci fosse stata una reta urbana e contadina di supporto tale da trasformare un gruppo di sbandati in un vero e proprio esercito ribelle.
Una rivoluzione dovuta, quindi, più al popolo cubano che alle abilità strategiche di Fidel che pur ci furono sul campo, dato che le tre colonne che avanzarono alla fine vittoriose sulla capitale dell’isola, furono indirizzate e guidate da personaggi scelti da lui con ottimo tempismo, grande capacità di manovra e anche uno straordinario supporto propagandistico, tenendo sempre fermo il fatto che la Sierra avrebbe dovuto essere Maestra non solo di nome, ma anche di fatto.
La rivoluzione, però, cominciò presto a divorare se stessa, e da libertaria si trasformò velocemente in marxista leninista prima, ma solo di nome, e caudillista poi, concretamente di fatto. Alcuni suoi illustri protagonisti e grandi leaders, ne fecero le spese quasi subito: Franqui, Matos, Cienfuegos…tra i più noti.

Bisogna dire che i migliori “nemici” della rivoluzione ce la misero tutta per favorire questa svolta, con i bombardamenti, con l’esplosione di una nave che portava rifornimenti a Cuba, con il tentativo maldestro di invasione non supportata da alcuna copertura aerea.
Fu allora molto chiaro che, se Cuba voleva sopravvivere come “modello rivoluzionario”, non poteva che legarsi mani e piedi all’URSS e quando quest’ultima negoziò il ritiro dei missili nucleari, fu ancora più chiaro che Cuba più che un modello, era destinata ad essere una pedina di uno scacchiere internazionale con un ruolo non di guida, ma del tutto subordinato.
A rendersene conto molto chiaramente fu anche Che Guevara il quale, se non fece la fine dei vari Franqui e Cienguegos, lo dobbiamo solo alla sua tempra indistruttibile di uomo “integrale”, che non separava cioè gli aspetti politici, morali e civili di un protagonista della rivoluzione, ma che li viveva tutti insieme integralmente, ed in maniera del tutto trasparente. Tanto da farne un “modelo de hombre”, un nuovo modello di umanità il cui sviluppo e la cui evoluzione si sarebbero dovuti basare su incentivi morali più che materiali, sulla consapevolezza cioè che una guida politica non solo non deve avere maggiori privilegi di altri, ma deve altresì essere sempre pronta al buon esempio e al sacrificio.  Insomma uno che avrebbe potuto assomigliare più ad un Garibaldi e ad un Mazzini piuttosto che a certi modelli marxisti, che pur non sono mancati, basti pensare, tra i tanti, a Gramsci.

Questo modello del Che fallì negli anni del Gran debate, tra il ’62 e il ’63, prima ancora delle sventurate ultime imprese del guerrillero eroico in Africa e in Bolivia, quando cioè fu chiaro che il paradigma prevalente a Cuba sarebbe stato quello di una colonia sovietica. Il Che si tolse solo le ultime soddisfazioni che gli erano possibili: la condanna dell’imperialismo statunitense nel suo ultimo discorso all’ONU alla fine del 1964, e la denuncia dell’imperialismo sovietico e dei rapporti diseguali tra stati socialisti che, invece che fratelli, erano di fatto subordinati, nel suo ultimo discorso ad Algeri nei primi mesi del 1965. Dopo di allora sparì dalla scena pubblica e Castro non fece nulla perché potesse ritornarci, né poté salvarlo dalla tragica fine in Bolivia, legato com’era all’URSS e dipendendo da essa per gli approvvigionamenti energetici e per le esportazioni di canna da zucchero, ne fece però un modello “statuario” E tutto ciò possiamo comprenderlo, anche se ci riesce difficile perdonare la lettura pubblica della lettera di Addio che Castro fece prima che il Che morisse, condannandolo, di fatto, ad un esilio permanente. Tramontò così anche il progetto che il Che, da ministro dell’Industria, aveva di trasformare Cuba in una sorta di Giappone dei Caraibi, e l’economia dell’isola è rimasta da allora legata per lunghi anni alla monocoltura, alla produzione agricola e sostanzialmente non proiettata verso un autentico sviluppo industriale e commerciale.

In questo contesto, però, essa divenne anche un modello di sviluppo sociale avanzato, sempre per la vocazione gesuitica di Fidel, che nonostante avesse abolito per lunghi anni persino la festa del Natale, si adoperò moltissimo per la crescita e il perfezionamento del sistema sanitario, scolastico e per la distribuzione di un reddito che fosse sufficiente a tutti per non chiedere l’elemosina per strada ed avere una casa dove abitare, con un livello di benessere sociale che, negli anni della guerra fredda, non aveva pari in Sudamerica. Dimostrando così che si può essere americani senza necessariamente essere statunitensi, anzi, per certi settori, stando anche meglio.
 In ogni caso, USA e Cuba son rimasti a lungo “i migliori nemici”. Cuba serviva agli USA per agitare lo spauracchio del comunismo in Sudamerica, e gli USA servivano a Cuba per sbandierare il bloqueo come sistema imperialista che rendeva prioritario resistere compatti intorno a Fidel e alla sua nomenklatura senza che fosse possibile alcun cambiamento. Tutto ciò è durato per quasi 30 anni, in cui Fidel fu sempre fedelissimo all’URSS fino alla sua caduta, anche negli anni della rivolta di Ungheria o della primavera di Praga, mai Fidel mise in discussione l’ortodossia comunista, lui che pur veniva dal partito ortodoxo..il quale tutto era fuorché comunista.  Furono anni in cui i cubani esportarono medici in tutto il mondo ed anche numerosi combattenti specialmente durante la guerra in Angola che contribuì efficacemente a mettere in crisi il regime razzista della Repubblica Sudafricana, il quale però crollò più per l’apertura dei mercati dell’oro e dei diamanti avvenuta dopo la caduta dell’URSS, che per le conseguenze di quell’intervento. Possiamo dire che l’internazionalismo cubano è finito con l’esempio tragico e glorioso di Che Guevara. Il resto è stato fatto più per salvaguardare Cuba nella sua autonomia nazionale, che per esportare un modello rivoluzionario.

Caduto l’URSS, questo mito della purezza del modello cubano entrò fortemente in crisi, sia per le sue contraddizioni interne sia per le difficoltà crescenti, con un periodo assai triste, segnato anche dal terribile caso Ochoa, e negli anni 90 in cui ci fu il serio rischio del collasso sociale ed economico dell’isola. Ma, anche in questi anni, la sagacia di Fidel ha funzionato, l’apertura moderata e progressiva ai mercati, aggirando l’embargo, l’avvicinamento alla Chiesa e ai democratici americani, e soprattutto il doppio regime monetario interno, hanno fatto sì che, da una parte il popolo restasse sostanzialmente povero anche se istruito e curato, ma dall’altra una classe benestante che godeva e gode tuttora della fiducia del gruppo di potere dominante, acquisisse un benessere crescente ed una sostanziale stabilità di potere. Perché a Cuba una democrazia interna ad uno stesso sistema esiste, ma non è tale né da cambiare il sistema, rendendolo più fortemente perfettibile e aperto al pluralismo, né tale da generare un reale e concreto ricambio interno alla stessa classe di potere. Insomma grazie a Fidel c’è ancora una dinastia familista al potere, passato "fraternamente" da una mano all’altra.

Il meglio di Fidel, però, è arrivato dopo la sua malattia che, volente o nolente, lo ha portato a rinunciare a tutte le cariche, pur restando il “papa” laico di Cuba, e tanto “papa”, da indurlo ad incontrare ben tre papi veri: Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco I. Questo ha fatto un gran bene all’isola perché, grazie alla mediazione della Chiesa, Cuba ha ottenuto una fiducia (culminata con la liberazione dei cinque prigionieri negli USA) e una possibilità di incrementare i viaggi e le sue attività commerciali e turistiche come mai prima era avvenuto,  e senza dover ridurre, come è accaduto in molti paesi occidentali, compreso il nostro, la rilevanza ed il primato dei suoi servizi sociali. Fidel ha dato il meglio di sé…chissà magari per salvarsi l’anima; in questo contesto degli ultimi suoi dieci anni, ha parlato soprattutto di pace e di ecologia, possiamo dire che è stato un bel profeta dell’Ecosocialismo, i suoi migliori discorsi sono gli ultimi anche se sappiamo bene come e quanto possano essere stati influenzati dai teologi della liberazione come Gutierrez e Boff, proprio con l’intento di creare un ponte con la Chiesa Cattolica. E’ quindi forse meglio ricordarlo per le vicende recenti più che per quelle passate, ben stigmatizzate da un libro di Carlos Franqui: Vida, aventuras, y desastres de un hombre llamado Castro, che dubito sarà mai tradotto in italiano, sebbene risalga al 1988, e sebbene il suo autore abbia a lungo soggiornato in Italia.

In genere, morto un papa se ne farà un altro…difficile però ipotizzare come e quando Cuba possa trovarne uno simile.  Oggi ne ha uno vero, che è anche un bel riferimento per chi da ormai svariati anni celebra il Natale anche lì. Si spera che con il suo contributo, l’isola debba mantenere il meglio di ciò che ha saputo produrre in tutti questi anni postrivoluzionari e lasciarsi alle spalle il peggio che ha diviso ferocemente i cubani dentro e fuori da quell’isola. Il futuro di Cuba infatti, non può che appartenere a tutti i cubani, sia a quelli che ci sono sempre stati, sia a coloro che son stati costretti a fuggire all'estero sui barconi e sono per questo anche morti in mare o fucilati.

E in nome di questo futuro, che speriamo nasca nell’auspicio del modello sempre vivo di un “hombre nuevo” che antepone l’esempio e la sua inflessibile dirittura morale ad ogni forma di sopraffazione e di repressione, possiamo solo dire…gracias y adios Fidel, VIVA CUBA!


         

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