Garibaldi pioniere dell'Ecosocialismo

Garibaldi pioniere dell'Ecosocialismo
Garibaldi, pioniere dell'Ecosocialismo (clickare sull'immagine)

sabato 16 settembre 2017

Memorie del partigiano Giorgio. Prima parte: 8 settembre, leggi razziali e preambolo della guerra




                                   di Giorgio Giannelli


Forte dei Marmi 8 settembre 1943. Come tutti i giorni mi trovavo al caffè Grand'Italia, gestito dalla famiglia Burchi, dove si riunivano tutti gli “antifascisti”, primo fra tutti Cesare Tarabella, compresi molti di coloro che, fino a qualche mese prima, erano fascisti. A un certo punto sentimmo dalla radio che il governo del Re aveva firmato l'armistizio con gli Alleati. Fu un esplosione di gioia. Solo un maresciallo di marina, che non era uno stupido, gridò: “E' inutile che gridiamo tanto. I tedeschi ce la faranno pagare”. Infatti a due passi da noi c'erano, seduti a un tavolo, dei soldati tedeschi che cercavano di passare il pomeriggio. Come fanno i bravi turisti. Quando seppero della notizia, esultarono anche loro, aumentarono il giro delle bibite, urlando “Guerra finita. Italia e Germania kaputt. Hitler e Mussolini merda”. Si ubriacarono. Poco dopo, avviandosi verso la caserma, che si trovava nell'albergo Imperiale nella stessa piazza Dante, continuarono a esaltare la loro allegria rotolandosi nell'erba del giardino pubblico e a sberciare le loro solite parole, questa volta in tedesco. Vistoli in quelle condizioni, uscì un loro ufficiale che li prese a calci nel culo e li riportò in caserma, il cui cancello fu chiuso a chiave e la sentinella ritirata. Osservata a scena, era quasi l'ora di cena, quando arrivò il maresciallo dei carabinieri in bicicletta e ci ordinò di tornare ciascuno a casa sua. “Il coprifuoco continua ancora”, si giustificò. Il giorno dopo tornai al caffè dei Burchi per commentare quant'era accaduto, finché qualcuno, sopraggiunse di corsa dalla spiaggia gridando: “Stanno a arrivando gli inglesi!”. In pochi minuti fummo in cima al ponte. Effettivamente stava arrivando un mezzo navale. Scrutammo un po' finché sentimmo delle urla:”Ci sono i tedeschi?”. Quando arrivarono a portata di voce rispondemmo: “Certo che ci sono i tedeschi, ma stanno rinchiusi in caserma”. Era un rimorchiatore della Marina militare italiana. Ci lanciarono una fune e scesero. Scappati da La Spezia, erano tutti sporchi, neri di nafta e terrorizzati. Qualcuno prese la via di Quercata per montare sui treni, ma una decina rimase in paese, ospitati nelle case del Forte. Andai in camera mia, presi dei vestiti e tutti i soldi che aveva della squadra ragazzi della Rondinella e i marinai si divisero le poche centinaia di lire e si cambiarono immediatamente. Sembra incredibile, ma molti si fidanzarono e poi sposarono con qualche ragazza fortemarmina. Gli altri si rifugiarono sui monti raggiungendo i partigiani di Gino Lombardi alla Porta di Farnocchia. Uno era un sardo e si chiamava Luigi Mulargia. Fu ucciso in combattimento dai fascisti e le sue orecchie, tagliate, vennero messe in evidenza nei caffè di Pietrasanta. Molti di noi sono andati con loro, ma la maggior parte dei giovani si arruolarono, parecchi volontari, altri no, nella Xa Flottiglia Mas. Qualche mese più tardi, alcuni di loro, come Giuseppe Spinetti, morto anch'esso in combattimento contro tedeschi, ci raggiunsero nelle vaie formazioni partigiane che operavamo tra l'Altissimo e il Gabberi. Gli “inglesi” arrivarono solo un anno dopo. 


Il 10 settembre raggiunse il paese un carro armato tedesco. Si fermò davanti all'accasermamento dei Krucchi dove si riaprì il cancello dell'albergo Imperiale e la sentinella riprese la sua posizione Tutto era stato predisposto per una grande manifestazione militare. Dietro il carro armato, si schierò un centinaio di soldati armati che, cantando il famigerato (e bellissmo) inno delle S.S., sfilò lungo le vie Mazzini e Carducci , passò nel cerchio di piazza Marconi e tornò in caserma dove il carro armato si fermò un paio di giorni. Il commissario prefettizio rimase l'ing.Picchiani, una brava persona, in carica fino al giugno dell'anno successivo quando dovette dare l'ordine di sfollamento. Ma quel 10 settembre arrivò anche l'orchestra militare germanica per un concerto davanti al caffè Roma. Molta gente, applausi e grida "Bravi, Bravissimi". Riaprì la sede del fascio nel fortino. I repubblichini del Forte, raggiunsero il numero di 400 iscritti, il più alto di tutta la Versila. Fu una tragicommedia tra i servi sciocchi e qualcuno che tentò di mantenere la dignità di essere italiano. Alcuni episodi. La partecipazione dei fascisti ai restrellamenti contro i partigiani e l'incendio della casa Lombardi a Ruosina, dove Terzilio Consigli prese uno schiaffo dal federale Piazzesi per aver commentato a bassa voce: "Peccato bruciare tuttte quelle lenzuola con la gente che non ne ha neppure una per coprirsi". Un altro episodio fu quando nel bar Di Fiorino, in via Montauti, enrò un tedesco ubriaco che voleva fare lo spaccone e il proprietario, Mario, lo buttò fuori a calci nel sedere. Da ricordare il mio compagno di scuola Giorgio Zapparoli Manzoni, monarchico e liberale, prese a sassate i vetri del fortino. Venne acciuffato, malmenato e portato in prigione e se la cavò solo perché suo padre riuscì a dimostrare che suo figlio era matto. Ma la cosa più eclatante fu quella che vide protagonista il prof. Vincenzo Gasperetti, segretario della sezione del partito repubblichino. Ribellatosi contro l'ordine di sfollamento, i tedeschi lo presero a pedate, lo portarono sul piazzale del ponte e lo volevano fucilare, così davanti a tutti in pieno giorno. Se la cavò, ma fu ucciso a Milano dai partigiani. Aurelio Tonini, uno dei nostri comandanti partigiiani, quando lo seppe, disse che - se fosse rimasto al Forte - nessuno gli avrebbe torto un capello. Il 30 giugno il paese sfollò. Non ci rimase nessuno parando verso i monti dove, pochi giorni dopo, anche la popolazione dell'Alta Versilia ricevette l'ordine di lascare le loro case per raggiugnere Sala Baganza in provincia di Parma. Lo fecero quasi tutti, meno che la gente di Sant'Anna di Stazzema, a quell'epoca piena di "migranti". Ecco perché il 12 agosto Kesselring dette l'ordine di sterminare tutti i disobbedenti. Le imposizioni dei tedeschi non si potevano ignorare.

Sono nato quattro anni dopo l'avvento del fascismo, ma la mia adolescenza venne frustata dal carattere possessivo e violento di mio padre. Si era fatto otto anni di militare e quattro di guerra e ogni giorno aveva dovuto portare munizioni e uomini a ridosso delle trincee. Doveva camminare sulle strade impervie delle Alpi e se una bomba avesse colpito il suo mezzo sarebbero saltati per aria lui e il mondo. Probabilmente l'avevano imbottito di psicofarmaci e di droga, tanto sta che, tornato a casa, era una bestia. Irriconoscibile. Si sfogava con il lavoro, gestendo il più bel negozio di Forte dei Marmi e facendo tanti soldi. Era un uomo forte, un lavoratore che tirava su sacchi da cinquanta chili. I suoi genitori lo chiamavano “il lombardo” perché era uno che mirava al sodo. Non era fascista. Afascista e non antifascista nel senso che l'ordine instaurato da Mussolini gli stava bene e gli permetteva di lavorare. Nacqui in casa Di Fiorino in via Montauti ed ero proprietà di un padre padrone. Afascista, però, quando venivano in negozio alcuni (pochi per la verità) notoriamente avversi regime, gli metteva l'Osservatore Romano nascosto tra La Nazione o nel Corriere, perché nessuno se ne accorgesse. Il giornale vaticano era l'unico che spesso criticava Mussolini. Quando mia madre mi accompagno il primo giorno a scuola, dove oggi c'è la sede del Comune, fu per me una liberazione. Mi trovai per la prima volta con i ragazzi della mia età, Tommaso e Mauro Benedetti, mio cugino Fabio, Lello Nicolai, i due Renzo Polacci, uno dei due conosciuto come Motò, Diego e Giampaolo Aliboni, Giampaolo Barbetti, Dario Vanni, Egidio Nardini, Agostino Balderi, Disma Salvatori, Enrico Bartolomei, Bruno Falconi, Alberto Bedini, Giorgio Berti, Vinicio Biagetti, Sergio Catelani, Mario Ceretti, Antonio Costa, Mario Domenici e il fiorentino Francesco Moriondo. C'era anche un Mariani di cui non ricordo il nome. Tutti maschi. La nostra maestra era l'Elisa Cortopassi che veniva col tramve da Pietrasanta, una brava donna, pacioccona. Tutto meno che una fascista. Aveva il vizietto di prendersi qualche decina di minuti di riposo per andare nel corridoio a chiacchierare con le sue colleghe e ci dava la possibilità di dare vita a cazzottate e colpi di cartelle tra quella della prima fila e quelli della seconda. Un giorno del 1937 ci dette un tema sul Duce. Avevo 10 anni e 5 mesi e credo di avere scritto che il Duce era bello, buono e un grande condottiero. Il tema fu premiato come il migliore della classe. Strano perché io, in italiano, dalle elementari in poi sono sempre stato rimandato a settembre. Si vede che si accontentavano di poco. C'era la miseria allora? Eccome. Ed era miseria nera. Quando arrivavano in classe i bimbetti di Vaiana, Caranna e Vittoria Apuana venivano scalzi. E avevano in mano un sasso, tenuto nel fuoco tutta la notte, infilato in un calzerotto di lana per ripararsi dal freddo per la strada e, dato che il Comune non accendeva i caminetti delle aule, li aspettavamo in gloria per passarci quel sasso, ormai tiepido, tra noi figli della gente del centro del paese. Mi misero addosso la divisa di Balilla, il ragazzo di Portoria che a Genova lanciò il primo sasso nella rivolta contro gli austriaci, che non era neanche male. Camicetta nera, fazzoletto azzurro al collo, calzoncini grigio verdi che arrivavano fino al ginocchio e calzettoni e scarponcini neri. In testa avevamo il fez nero con tanto di pennacchio alla bersagliera. Ma i poveri, invece degli scarponcini, avevano gli zoccoli legati con un elastico. Ci chiamavano i Balilla scalcinati perché il gruppo più elegante era quello composto dai Balilla moschettieri che, oltre che la camicia di seta e i guantoni di pelle a mezze maniche, erano armati di moschetto che sparava a salve. Noi Balilla scalcinati per fucile avevamo un manico di scopa. Anche a me sarebbe piaciuto essere moschettiere, ma mio padre me lo proibì. L'adunata si svolgeva tutti i sabati pomeriggio e si trattava di marciare, battere il passo e fare il dietro front, svoltare a sinistra e svoltare a destra, dietro front e alt. I nostri comandanti erano Piero Pierini, che poi divenne i mio capo partigiano, Elio Bramanti e Ottorino Castagnini. Con il loro fischietto ci davano il segno del passo. Un colpo di fischio, seguito da altri due e così passava la giornata. A giugno, quando al campo sportivo, quando nel piazzale davanti al pontile caricatore, c'era i saggio ginnico. Ragazzi e ragazze, chiamate Piccole italiane. In terza elementare ci cambiarono maestra, la signora Maria Bossi, che era anche la segretaria del fascio femminile, una donna in gamba, molto severa con le femmine. Tra queste ricordo Fiorenza Bianchini, Silvana Bonelli. Ornella Federigi, Orietta Bottari, Elena Spinetti, Mara Figliè, Giuseppina Frigo, Andretta Maggi, Oceania Magnini, Leda Nardini, Angiolina Pampaloni, Piera Santini e Guglielma Staccioli. La maestra Bossi era una donna moderna e i suoi preferiti li portava a casa sua in via XX settembre a imparare il disegno da suo marito, il pittore Filippi. Ci insegnò a ritrarre le formiche. Ecco perché imparai a disegnare le partite di calcio come faceva il celebre Carmelo Silva su Calcio Illustrato. Tutta roba che finiva sui quaderni e sugli spazi bianchi dei libri di scuola, ricevendo in compenso parecchi scapaccioni da parte del mio genitore.

Nel 1938 in casa mia avvenne un fulmine a ciel sereno: le leggi razziali. La mia nonna materna era ebrea. Mia madre era figlia di una ebrea e io e mia sorella suoi nipoti. Era l'Adele Ventura che aveva sposato mio nonno Domenico Bàrberi. Mio padre fu preso dal panico, andò dal podestà Carlo Gotti con il quale aveva fatto la prima guerra mondiale per chiedergli un consiglio da amico. E il podestà, dopo avere riflettuto un po', gli disse: “Vito, al posto tuo, andrei nel paese di nascita di tua suocera, darei una bustarella all'impiegato dell'anagrafe e tornerei al Forte con i connotati diversi. La fai chiamare con il cognome della madre, che era cattolica, e figlia di N.N". Così fu, ma era come gettare un bicchier d'acqua nel mare. Dal giorno del matrimonio, che avvenne in pompa magna nel duomo di Pietrasanta, dove convenne una folla d'eccezione, per assistere alla "conversione dell'ebrea", la nonna era molto conosciuta in paese, anche perché èra bella ed elegante. I Bàrberii erano una famiglia molto importante e mio nonno era stato il fondatore del Comune ed aveva fatto persino il prosindaco. Ragione per cui, fin dal primo giorno che mise piede al Forte, nel 1885, tutti la chiamavano “l'ebreina”. Vado dall'ebreina, me l'ha dato l'ebreina, l'ho saputo dall'ebreina. Pur cambiando i connotati l'Adele era chiamata con il soprannome di ebreina. Lo sapevano tutti, ma avevamo la parola del podestà, non solo, ma nessuno, neppure i fascisti, ci hanno mai dato fastidio. Il problema sorse con l'occupazione tedesca, anche se l'Adele morì un anno prima, nel 1942. Mio padre comunque, mi tolse da ginnasio di Viareggio e mi mise in uno dei collegi più importanti d'Italia, Alla Querce di Firenze, gestito dai padri barnabiti. Per me fu un bagno di libertà. Intanto i preti non facevano politica e se ne infischiavano del fascismo, ma la cosa che mi rese felice fu l'accoglienza dei miei compagni di scuola e la possibilità di giocare tutti i giorni al pallone, che è stato il mio primo vero e grande amore. Quando morì la nonna venne sepolta accanto a sua sorella, anch'essa un vera ebrea che perché non si era sposata, e sulla tomba ci fu scritto, come si può vedere ancor oggi, Nilda Traverso e sua sorella Adele nei Bàrberi. Entrambe sepolte sotto falso nome. Di questo certo il responsabile era suo marito Domenico. Cosa che avrei fatto anch'io. Certo a Firenze era un'altra vita, quante birbonate a quei poveri preti, quante sigarette fumate tra i cespugli del collegio, le prime seghe. Si usciva due volte la settimana. Facevamo spettacolo con quelle divisa da principini con tanto di mantello quando faceva freddo. Si passava per le strade e si suonava il campanello a tirante come usava allora in tutte le case. La gente si affacciava e ci lanciava insulti. Divenni subito il capoccia della mia camerata e mi guadagnai il titolo di la Primula Rossa, un celebre film con Lesle Howard e Merle Oberon, la mia attrice preferita di tutti in tempi. Perché all'interno del palazzo avevamo anche il cinema una volta alla settimana, che si trasformava in teatro quando c'era da recitare qualche commedia con noi collegiali attori. Fu l'anno in cui Hitler e Mussolini s'incontrarono a Firenze. Una città rinascimentale trasformata in città di cartone con raffigurazioni abbastanza pacchiane ispirate al militarismo. Dalla stazione in poi la città era imbandierata di striscioni rossi con la croce uncinata che andavano dai tetti delle case fino al marciapiede. I due mi passarono a cinque metri di distanza, in piedi, mentre facevano il saluto romano. Mussolini in divisa nera era sorridente, l'altro impavido, occhi freddi nascosti dalla visiera del cappello, non poteva sorridere perché era senza labbra e quel poco che aveva era coperto dai baffetti neri. La macchino, aperta, era protetta dai motociclisti dei moschettieri del Duce. Tutto era nero. Non voglio dire un corteo funebre, ma qualcosa che non scaldava certo le anime. Dietro i Due, altre macchine, la prima delle quali aveva a bordo i ministro Galeazzo Ciano e von Ribbentrop. Entrati in Palazzo Vecchio i Capi si fecero vivi al balcone adornato da un tappeto giallo con tanti gigli fiorentini rossi che alleggerivano la scena. Applausi, ma non frenetici. Era un saluto di cortesia che la gente della città, tutta in camicia nera, rivolgeva. La cosa più divertente è che in quella piazza, in quegli stessi momenti, c'era anche la mia futura moglie, fiorentina. Ci conoscemmo solo 20 anni dopo alla Capannina di Franceschi. Per puro caso. Il primo anno venni promosso. Il secondo venni rimandato a settembre in latino e, come al solito, in italiano. Era uno scherzo da preti perché gli amministratori avevano l'interesse, dato che la quota d'iscrizione e mantenimento era molto alta, a portarci tutti all'università. Ciuchi compresi. Ripeto, uno scherzo da preti che non andò a genio a mio padre, che non solo mi tolse dal collegio, ma non mi fece dare neppure gli esami di riparazione. E così, l''ano dopo, 1939, data che segnò l'inizio della seconda guerra mondiale, mi iscrissi, da ripetente, al ginnasio Costanzo Ciano di Pietrasanta, per la prima volta aperto agli studenti versiliesi.

Stamani ho incontrato al caffè Principe del Forte la più grande attrice russa, Marina Orlova, e una delle migliori scrittrici francesi, Maria Lafont. Vogliono sapere da me com'era, che gusti aveva, come si comportava e tutte le vicende di Angelica Balabanoff. La grande rivoluzionaria russa della quale sono l'ultimo esecutore testamentario vivente. La Lafont era già venuta a trovarmi a Roma e la Orlova l'avevo già vista due volte, una delle quali accompagnata dall'ambasciatore italiano a Mosca, Cesare Ragaglini. Gente colta, venuta apposta al Forte dei Marmi. La Orlova reciterà in un film la parte della Balabanoff, la donna che ha scoperto Mussolini e che ha partecipato alla rivoluzione russa, arrivando a San Pietroburgo, con Lenin, nel famoso vagone piombato. Venne al Forte due volte, la prima durante la prima guerra mondiale, ospite della vedova del martire irredentista Cesare Battisti, che fu anche deputato socialista al parlamento austriaco. La seconda volta, invitata da me, ospite in casa mia nel 1952, per celebrare il 60° della fondazione del partito socialista. L'avevo conosciuta a Milano al congresso dell'Internazionale socialista. Alla fine del congresso una gran donna come lei, si prestò umilmente a fare da interprete a gente come l'nglese Clement Attlee (in quel periodo premier della G.B, dove aveva fatto fuori alle elezioni un uomo come Churchill, subito dopo la seconda guerra mondiale), lo svedese Taage Erlander, il francese Guy Mollet già presidente del consiglio, il tedesco Erich Ollenhaer, l'indiano M.S. Gokhale, il danese Hans Hedithof, l'austriaco Adolf Scaerf, futuro presidente della repubblica, l'olandese Koos Vorrink, il belga Paul Henry Spaak, zio dell'attrice Caterine Spaak, anch'egli ex presidente del consiglio, lo spagnolo Rodolfo Llopis, il polacco Adam Ciolkosz. Tradusse in tutte le lingue. Rivoluzionaria e poliglotta. In qui momenti pensai a mia madre, beghina e bacia pile, e a mio padre, conservatore. E mi dissi che sarebbe successo se avessero conosciuta una donnetta del genere. Decisi di avvicinarla. Era sotto il palco, davanti alla Galleria. Mi sembrò più bassa di quello che era. Mi presentai. Conosce Forte dei Marmi? e mi rispose che c'era stata quand'era la presidente di Zimmerwald , il gruppo internazionale dei socialisti di tutti i paesi in conflitto tra loro durante la prima guerra mondiale. E aggiunse che proprio in quei giorni un suo discorso a Viareggio venne interrotto dalla polizia per i toni accesi che usava davanti a una folla di marinai e operai. Sicuro che mi dicesse di no, le chiesi se se la sentiva di venire a parlare nel mio paese, piccola borgata, ma ricco di tanti socialisti. Non mi disse di no. Si mise a rumare nella sua enorme sporta cavandone un taccuino. Poi arrivò la risposta: “Le va bene il 16 novembre? Verrò in treno, le comunicherò a che ora arriverò alla stazione più vicina”. Feci un salto di gioia e l'abbracciai. Fu un successone. Vennero da tutta la Versilia, da Lucca e da Firenze. Il teatro Principe riboccava. E in casa mia andò bene. Mio padre smaniava di conoscere la donna che aveva lavorato accanto a Mussolini, ma quando, mentre dava ordini a mia madre in modo un po' padronale, gli gridò: ”Ma come si permette di trattare una donna in questo modo. Non è mica la sua serva!”. Babbo Vito per la prima volta in famiglia dovette abbassare la testa. Ricchissima di famiglia, stufa di vivere nei privilegi, la Balabanoff se ne andò di casa. Sua madre tentò di impedire questa sua volontà, ma quando la ragazza montò sulla carrozza che la portava al treno, le gridò dietro: “Non sei tu che te ne vai, ma sono io che ti caccio. E quando morirai mi chiederai perdono". Infatti quando spirò, io ero presente, pronunciò diverse volte il nome di “mamuska-mamuska” mandandole dei baci. A Bruxelles conobbe Antonio Labriola, il più grande marxista dell'epoca, e lui la portò in Italia facendola iscrivere al PSI e il partito la mandò subito a Lugano a insegnare il tedesco ai lavoratori italiani. Una sera nell'aula le apparve un uomo strano. Rosso in faccia, occhi rossi infuocati, barba lunga, scomposto, mordeva il cappello. Alla fine della lezione, tutti se ne andarono eccetto costui. Allora la Balabanoff si avvicinò al suo banco domandandogli di cosa aveva bisogno. Lasciatemi perdere, sono malato, disertore e disoccupato, ho preso la sifilide, penso che mi ucciderò”. Era Benito Mussolini.

L'estate del 1939 me la dovetti passare a fare il garzone nella bottega di mio padre, a cominciare dall'andata due volte al giorno alla stazione ferroviaria di Querceta a ritirare i pacchi dei giornali che vendevamo nei negozio del centro del Forte e delle quattro edicole che aveva messo in piedi dalla Capannina di Franceschi a Vittoria Apuana. Ma la cosa più divertente fu quella di mettere in piedi una squadretta di calcio al bagno Montecristo, la Rondinella, composta da ragazzini sotto i dieci anni. Si giocava sulla rena e io facevo l'allenatore. Canottiere bianca con una striscia di stoffa azzurra in verticale, non perdemmo mai una partita, giocando quasi tutti i giorni nello spazio dietro le capanne del bagno Roma. Roberto Tacchella in porta, Sandro Mazzucchi e Vittorio Agostini terzini, Giorgio Ferraresi centro campista, Enrico Baralla e Giuliano Traverso ali d'attacco e Luciano Sacchi centro avanti. Qualche volta giocò Enrico Mazzucchi , il più piccolo della squadra, che finì poi nella Juventus di Boniperti e nel Cagliari di Gigi Riva. Alla ripresa della scuola, questa volta a Pietrasanta, il grande incontro con Gianfranco Tonini, che diverrà il più grande amico della mia vita. Il ginnasio del capoluogo versiliese fu una creatura del fascismo. Era podestà Giovanni Bresciani, segretario del fascio Andrea Ballerini, ed era al massimo della celebrità Leone Tommasi, per non dimenticare il grande imprenditore di scultura Dario Luisi. Tra i professori Leila Luisi, allora fidanzata, e poi andata sposa con l'onorevole ingegnere Oscar Galleni, deputato alla Camera dei fasci e corporazioni. E infatti tra miei compagni di claasse c'erano Arnaldo Ballerini, Marcello Tommasi e Giuliano Luisi. Da ricordare Giancarlo Polacci, Costantino Paolicchi e Silla Silvesri, con i quali prendevo il tramve a piazza Marconi, si cambiava al Fiumetto e si scendeva a Porta a Pisa. Le scuole erano collocate nei conventi di Sant'Agostino prima e di San Leone dopo. Tutti innamorati, si fa per dire, delle ragazze che frequentavano la scuola, a cominciare dalla Sandra Biucchi, che era l'unica femmina in classe mia, dalla Franca Pardini, all'Anna Maria Telara e della Gabriella Tirinnanzi. Quello che mi colpiva in Gianfranco, la sua simpatia, il modo di parlare seravezzino e la sua intransigenza antifascista. Figlio di uno, il sor Nicola, che era stato podestà di Stazzema e segretario del fascio al Forte, ma che era un antitedesco per avere combattuto con la baionetta in canna contro i krucchi nella prima guerra mondiale, Gianfranco ce l'aveva a morte con i fascisti. In famiglia sentiva radio Londra, proibito dal regime, cosa che io non poteva fare perché mio padre l'ascoltava in camera sua, chiuso a chiave. Così non potevo sentire quello che faceva, soprattutto perché non si fidava di me, dato che potevo raccontare a scuola quello che succedeva a casa mia. Gianfranco invece ascoltava Harold Stevens, il colonnello Buonasera, e ne parlava ad alta voce, raccontando quello che succedeva in politica, in Italia e nel mondo. Una fiumana. Quando poi scoppiò la guerra e i nostri soldati avanzavano, lui diceva che “facevano la trottatella del miccio”. Il giorno poi, mentre davanti alla cartina geografica della Libia scherzava sui nostri combattenti cui “a Giarabub il culo gli faceva lippe-lappe”, entrò all'improvviso in aula la professoressa Luisi, udì le sue parole, gli piombò addosso e gli appioppò un ceffone tale da fagli perdere l'equilibrio. Cadendo si fratturò una gamba e per un paio di mesi dovette girare con l'ingessatura e le stampelle. Per me divenne un martire antifascista. A entrambi non ci piaceva studiare. La scuola non era fatta per noi ribelli e sognatori, sopratutto imparare le poesie a memoria. Era anche un inventore. La professoressa di francese lo interrogò e gli domandò cosa aveva mangiato il giorno prima. E Lui: “La viande en escatol”. La carne in scatola. Schioccò una risata generale. La risposta corretta sarebbe stata “La viande en boite”. Ma lui italianizzò anche il francese. E' sempre stato liberale e io socialista, ma ci univa lo stesso antifascismo. Siamo stati legati a certi principi di libertà, finchè, da vecchi, fondammo con Manlio Cancogni, Marcello Tommasi e la medaglia d'oro Emilio Barberi, l'Unione Versiliese, un movimento autonomista contro lo strapotere dei partiti politici. Il 10 giugno 1940 l'Italia dichiarò guerra alla Francia e all'Inghilterra, al fianco della Germania nazista.

Sembrava a tutti che il Vincere e Vinceremo lanciato da Mussolini da palazzo Venezia dovesse avverarsi veramente. Ecco perché ho scritto un libro dal titolo “La Versilia ha vinto la guerra”. Quel 10 giungo, sapendo che il Duce avrebbe parlato, con mio cugino Fabio, che non avevamo niente da fare, capitammo in piazza Garibaldi al Forte, davanti al fortino, molto prima dell'ora stabilita. E così osservammo le operazioni degli elettricisti che dovevano impiantare l'alto parlante. E così sentimmo alcuni vecchietti, avevano una cinquantina d'anni, ma per dei quattordicenni quella era un'età da vecchi. Si dicevano”Sembra che il Duce voglia dichiarare la guerra, ma contro chi?” “E che ne so'” rispondeva quell'altro. Beata innocenza. Piano piano la piazza si riempi. Non tutti erano in camicia ner.a, ma il paese era lì, al completo. Non mancava nessun. Qualche ragazzo era salito sugli alberi. Alle 17 in punto parlò Mussolini. Grande parole, scolpite nel armo. Quand'era direttore dell'Avanti! il quotidiano socialista vendeva 200 mila copie al giorno. Era uno che con le parole ci sapeva fare. Un discorso breve, di un quarto d'ora. Mi sono rimaste impresso queste parole: “L'Italia, proletaria e fascista, è per la terza volta in piedi, forte, fiera e compatta come non mai. La parola d'ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed accende i cuori dalle Alpi all'Oceano Indiano: vincere!”. La folla di tutta Italia impazzì. Al Forte impazzì tre volte. In un paese di poco più di sei mila anime c'erano vecchi donne, giovani, ragazzi e puppanti. Dal portone del palazzo del littorio uscirono fuori bandiere e gagliardetti e la gente li seguì compatta. Passarono per via Mazzini che erano già il fila per dieci, da un marciapiede all'altro, arrivarono alle scuole, dov'è oggi è il Comune, svoltarono per via Regina Margherita, poi Matteoti, fecero il giro di piazza Marconi, ripresero via Carducci e le bandiere rientrarono nella sede del fascio. Mai vista una manifestazione di gioia e felicità del genere al Forte. La gente cantava gli inni che aveva imparato a scuola. “Allarmi all'armi, noi del fascismo siamo i componenti, la causa sosterrem fino alla morte e lotteremo sempre forte forte finché terremo il nostro sangue in cor”. Oppure: “Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza, nel dolore e nell'ebrezza il tuo canto esulterà”, ma il comico veniva con ”Andar pel vasto mar ridendo in faccia a monna morte ed al destino, colpir e seppellir ogni nemico che s'incontra sul cammino” Un intero popolo fascista. Qualcuno mi ha raccontato che solo la maestra Nicolina Chiarini avrebbe detto da un lato della piazza: “Questi non sanno che vuol dire guerra. Io ho vissuto la Grande guerra: quanti morti”. Tornando verso casa, vidi la gente seduta ai tavolini del caffè Roma. Si brindava. Sembrava Natale ed eravamo alla vigilia dell'arrivo dei villeggianti. Il babbo della mia bella e dolce compagna di scuola Telda, Alfredo Frati, montato su una sedia cercava di imitare il Duce. A un certo punto concluse gridando “Fra una settimana a Parigi! Fra un mese a Londra”. La guerra cominciò così. Ecco perché ho scritto “La Versilia ha vinto la guerra, che si trova ancora nelle librerie dei quattro Comuni del Fiume. I giorni successivi li passai con Fabio, Gianfranco, Angelo Ricci, Mario Ceretti, Mario Ugazzi e Giampaolo Barbetti. Si diceva. “Ma che che guerra è questa. Tutto come prima”. Al Forte non successe altro. Misero la tessera per gli alimentari, ma ognuno pensava che fosse una cosa provvisoria. Finché si seppe che il nostro concittadino, il marinaio Guido Giannotti, era morto nell'affondamento dell'incrociatore Espero. La musica cambiò e la tristezza invase il paese. Si sentivano tutti giorni alle 13 dalla radio, che allora di chiamava EIAR, i comunicati di guerra emessi dal quartiere generale delle forze armate. Al caffè in quei minuti, ci si doveva alzare tutti in piedi e stare sull'attenti. E così fu quando il giornale radio dette notizia degli atti eroici compiuti da Lido Poli che aveva abbattuto cinque aerei inglesi nel cielo di Giarabub, e di Emilio Barberi che, entrato con un barchino pieno di esplosivo nella rada di Suda, fece saltare un paio di navi inglesi. Si fece una decina di anni di prigionia. Ma, quando tornò in paese con la medaglia d'oro, raccontò che, subito dopo essersi gettato in acqua, raggiunse il molo per godersi lo spettacolo di fuoco che aveva provocato. Era solo, gli venne voglia di fumarsi una sigaretta, ma non gli si accendevano i fiammiferi. Vide passare due sentinelle inglesi e chiese loro un accendino: “Du you ave a match?”. Quelli gli accesero la sigaretta, ma si accorsero del suo accento e lo arrestarono. Fu un prigionia lunga e durissima. Quando poi, sbarcò a Napoli dopo molti anni dopo, incontrò due soldati britannici. Li avvicinò e gli chiese se erano inglesi. Ricevuta una risposta positiva, li cazzottò, gridando, quando i due erano a terra sanguinanti: “Adesso siamo pari”...

 1 continua

  © giorgio giannelli

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